Mattarella
(Ansa)
Politica

Davanti alle parole di Mattarella sulla giustizia la politica è senza dignità

Il presidente rieletto rilancia la necessità di riforme, che però sono fragili e insufficienti. Basta pensare ai 200 magistrati che occupano gli uffici legislativi dei ministeri. Di fronte alle toghe, Parlamento e governo sono in ginocchio

C’è soltanto una cosa peggiore della retorica dei presidenti della Repubblica: la retorica dei giornali. Oggi, per descrivere il discorso d’insediamento del rieletto Sergio Mattarella, nei titoli dei quotidiani italiani il sostantivo imperante (e insieme sconcertante) è «Dignità». Viene davvero da domandarsi dove diavolo si nasconda la dignità di una politica e di un Parlamento che - dopo una settimana di manfrine e di manifesta confusione mentale – hanno rieletto Sergio Mattarella come loro ultima spiaggia: hanno scelto lui, senatori e deputati, soltanto perché sono stati chiaramente incapaci di combinare altro, e perché sono riusciti nell’impresa di garantirsi un altro anno e mezzo di stipendio. Altro che dignità.

Quanto al presidente Mattarella e al suo discorso d’insediamento di ieri, se pure è stato apprezzabile che abbia riservato tanta attenzione al tema della giustizia, il risultato effettivo lo è un po’ meno. Il rieletto capo dello Stato, che negli ultimi sette anni al Quirinale è stato – in quanto tale - anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura, ha detto che «un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia: per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività».

Tutto vero, anzi: verissimo. Ma viene da domandare dove fosse il Mattarella presidente del Csm quando dal maggio 2019 hanno iniziato a scoppiare scandali feroci, che hanno dimostrato come la giustizia non sia solo «terreno di scontro», ma il teatro di una vera e propria guerra per bande? «È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento», ha aggiunto ieri Mattarella, «affinché il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’ordine giudiziario».

Superare le «logiche di appartenenza»? Come hanno diabolicamente dimostrato gli ultimi scandali, le correnti della magistratura controllano non soltanto il sistema delle carriere, delle promozioni e delle (rarissime) sanzioni inflitte ai magistrati, ma condizionano perfino l’attività giurisdizionale. Il Sistema, il saggio-denuncia scritto da Luca Palamara e da Sandro Sallusti, ha rivelato con sconvolgente efficacia quel che in realtà era nascosto sotto una sottile patina trasparente: la giustizia italiana da decenni è governata in ogni suo millimetro dalle correnti, cioè dalla politica, dall’ideologia, dalle pulsioni di annientamento di ogni politico che tenti una riforma (tanto più, ovviamente, se il politico viene da destra). Con buona pace del presidente Mattarella, le «logiche di appartenenza» non possono essere «superate»: devono essere abbattute. Ma la politica è debole e incapace, e la magistratura correntizia non lo permette.

Ha un bel dire, il presidente Mattarella, che «i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario». E che «non devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone». Ha ragione, il presidente, a chiedere che «la magistratura e l'avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia e allineandola agli standard europei». Ma il presidente non può non sapere che una pur blanda riforma del Csm è ferma da mesi proprio per i veti della magistratura associata: la tremebonda politica è stata bloccata perfino sulla strada di una riformetta che non incide davvero su nessun problema.

Per questo provoca appena un sorriso amaro la risposta scontata che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, ha dedicato ieri agli appelli di Mattarella. Fondamentalmente la sua risposta si riduce a un «abbiamo già dato»: «La magistratura ha preso coscienza del problema» ha detto ieri il capo del sindacato delle toghe, «e ha avviato in più sedi gli accertamenti sulle degenerazioni correntizie». Santalucia ha aggiunto che «i moniti del presidente vedono già i magistrati tutti pronti a proseguirne l’attuazione, in condivisione piena della centralità della Costituzione».

In realtà, la riforma del Csm e della giustizia penale dovrebbero essere molto più radicali e prescindere dalla proclamata «buona volontà» della magistratura sindacalizzata. Se è vero che il potere giudiziario da decenni ha esondato dai limiti costituzionali, e se è vero (com’è accaduto più volte) che è in grado di determinare la vita politica anche con una semplice iscrizione nel registro degli indagati, il problema che si pone è quello di un riequilibrio tra i poteri dello Stato. Per questo, però, serve una riforma davvero radicale dell’ordinamento giudiziario. E non basta modificare il sistema elettorale del Csm: serve una vera e concretissima separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, e serve una vera responsabilità professionale.

Ma va risolto, soprattutto, un altro problema fondamentale. È un tema che il capo dello Stato non ha citato ieri nel suo discorso, ma che non può non avere perfettamente presente: nei ministeri italiani oggi sono distaccati oltre 200 magistrati. Lavorano negli uffici legislativi. Esiste, quindi, una commistione indebita tra potere giudiziario ed esecutivo. A fare le nostre leggi, anche quelle che riguardano la magistratura, contribuiscono (spesso potentemente) i magistrati. Non accade in nessun altro Paese democratico.

È questo un tema centrale, che la politica per dignità dovrebbe risolvere non soltanto per restituire funzionalità ed equilibrio alla giustizia , ma per sciogliere un blocco di potere che inevitabilmente impedisce ogni vera riforma dell’ordinamento giudiziario. Certo, per riuscirci la politica dovrebbe ritrovare la sua perduta dignità. Dignità. Un sostantivo che oggi, purtroppo, occupa soltanto i titoli dei giornali…

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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