Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi
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L'accerchiamento a Berlusconi nel 2011: e a Roma scattò l'ora X

Cronaca di un assedio durato per mesi, sotto la regia di Napolitano. Tra sgambetti, inchieste giudiziarie, ostilità internazionali e nemici interni

Era il pomeriggio inoltrato di un giorno dell'estate del 2013 e in una Roma semideserta per la canicola, fatto più unico che raro, il corteo presidenziale si fermò davanti ad uno dei civici di via Bruno Buozzi, nel quartiere Parioli. L'allora Presidente Giorgio Napolitano scese dall'auto accompagnato dalla scorta e salì nello studio di un noto penalista romano, per parlare di un argomento spinoso come la concessione della grazia a Silvio Berlusconi, da poco condannato a 4 anni in Cassazionee sotto la spada di Damocle della legge Severino.

La grazia in cambio del ritiro dalla politica

Una conversazione in punta di diritto su un caso che, specie nei ragionamenti del capo dello Stato, non avrebbe potuto non avere conseguenze, soprattutto, sul piano politico. Il motivo era semplice: all'epoca il Cavaliere era il capo del partito sulle cui spalle, insieme al Pd, ricadeva il peso del governo del Paese.

Ma, nonostante ciò, in quello scambio di idee Napolitano poneva una questione di fondo: la grazia, per evitare polemiche, poteva ipotizzarsi solo se Berlusconi avesse preso l'impegno solenne di ritirarsi dalla politica. Insomma, sarebbe stata la resa definitiva, l'epilogo finale di quell'operazione cominciata nel 2011 con la caduta del governo Berlusconi, proseguita con il governo Monti, messa in crisi dall'affermazione elettorale del Cavaliere nel 2013 e che in quel momento, nella mente dei suoi avversari, doveva arrivare al suo culmine, con il tramonto definitivo del berlusconismo.

Napolitano non aveva però fatto i conti con la caparbietà, l'ostinazione del personaggio, che anche in quell'occasione si ribellò e disse di "no", accettando il calvario della cacciata dal Parlamento e dei servizi sociali a Cesano Boscone, pur di non arrendersi.

È un racconto inedito dei Palazzi romani con le sue verità. Un aneddoto che stride con un presente in cui, alla vigilia delle prossime elezioni politiche, il Cavaliere è tornato di nuovo alla ribalta. Accettato - e qui sta il paradosso - dai nemici di ieri, dagli stessi pezzi di establishment, internazionale e nazionale, che avevano ordito e tifato per la sua caduta: quei mondi che si sono riconciliati o, comunque, hanno cominciato a vedere il Cavaliere come un argine rispetto al populismo di ogni colore; e che in Italia parlano con la voce di Eugenio Scalfari e fuori con quelle dell'Economist, del Financial Times, di Le Monde. Ma anche se molta acqua è passata sotto i ponti, la congiura di Palazzo per spodestare il Cavaliere c'è stata, eccome. Una caccia spietata, durata anni, senza tregua, in cui cacciatori, killer, congiurati hanno avuto molti volti.

Perché Berlusconi dava fastidio in Europa

Un combinato-disposto che, in fasi diverse, ha messo insieme, politica, procure, poteri finanziari e gruppi editoriali. Lo ammette la stessa preda designata, nella prefazione al libro Berlusconi deve cadere di Renato Brunetta, a proposito della frase con cui il segretario di Stato Usa, Timothy Geithner, convinse il presidente Obama a non farsi complice della congiura: "We can't have his blood on our hands" (non vogliamo sporcarci le mani con il suo sangue). "Il sangue è mio" scrive il Cavaliere. "Il complotto era contro di me... Nel leggere la parola 'sangue' ho pensato per un attimo che si fosse trattato proprio di eliminarmi fisicamente".

Già, Berlusconi e la sua politica dovevano essere eliminati. Il personaggio dava troppo fastidio in Europa, perché troppo "autonomo" rispetto agli equilibri di Bruxelles. Il Cavaliere era riottoso nei confronti della politica del rigore, propugnata da Angela Merkel contro la crisi economica, e propendeva più per la ricetta Usa, improntata allo "sviluppo". E non subiva la logica della grandeur francese di Nicolas Sarkozy: Berlusconi era stato molto critico per l'intervento in Libia e aveva fatto di tutto per avere Mario Draghi alla Bce. Il presidente francese, permaloso com'era, aveva preso come un affronto personale anche i rifiuti di Lorenzo Bini Smaghi, che era nel board dell'Istituto, a lasciare il posto ad un rappresentante di Parigi.

In realtà Bini Smaghi, secondo lo stile di Palazzo, ambiva in cambio alla nomina di Governatore di Bankitalia. E qui arriviamo, all'altro corno del "problema" che travolse il Cavaliere, forse il principale: l'establishment politico, economico, finanziario del Belpaese non ha mai fatto "sistema". Se il nemico è alle porte, se, come in questo caso, altri Paesi puntano ad imporre i loro interessi su quelli italiani, non si fa fronte comune, ma si sfrutta l'occasione per regolare i conti in casa. Un vecchio vizio della gens italica. E in quel momento quelli che avevano individuato nel Cavaliere il proprio bersaglio, per abbatterlo o per prenderne il posto, erano davvero una moltitudine.

Nel discorso del 25 aprile del 2009 ad Onna, in Abruzzo, dopo il terremoto, il premier di allora aveva raggiunto un indice di gradimento del 72 per cento: troppo potente, troppo popolare. È la precondizione, com'è tradizione in Italia, per cadere precipitevolissimevolmente. Così, Berlusconi, ingaggiò un duello con i maggiori leader europei, senza avere le spalle coperte in Italia.

Napolitano, il regista della caduta

Più che un complotto, fu una somma di interessi, esterni e interni, convergenti sull'obiettivo di farlo fuori. Che trovarono un regista abile che li coordinò e ne scandì i tempi come il presidente Napolitano, il quale mise in campo un particolare esempio di moral suasion: più o meno come il presidente Oscar Luigi Scalfaro persuase nel 1994 Umberto Bossi e la Lega a lasciare il primo governo Berlusconi al suo destino. Certe operazioni, infatti, puoi assecondarle solo stando sul Colle più alto. Solo che, mentre Scalfaro si cimentò in una guerra durata sei mesi, Napolitano optò per una guerra di posizione di due anni. Se si lascia la cronaca spicciola e si ha un approccio storico, ponendo attenzione alla bussola che seguono certi avvenimenti nel tempo, è difficile non arrivare ad una conclusione del genere.

Si comincia nel 2010, quando - ci sono testimonianze in tal senso - Napolitano favorisce il divorzio tra Berlusconi e Ganfranco Fini, facendo intravvedere a quest'ultimo il miraggio di Palazzo Chigi. Così un pezzo della maggioranza bulgara che il Cavaliere aveva portato in Parlamento, se ne va per i fatti suoi, sperando di mettere in piedi un altro governo. All'epoca un Napolitano indiavolato, telefonò al direttore del Tg1, rimproverandolo di aver usato il termine "ribaltone": c'è da chiedersi quale sarebbe potuto essere, nel lessico politico, un vocabolo più corretto per indicare una simile operazione.

I "congiurati" fallirono solo perché sbagliaronoi numeri. Una prima volta. Siamo nel dicembre del 2010. Sei mesi dopo, quando ancora i fondamentali dell'economia italiana erano a posto, ma l'immagine del premier era messa a dura prova dall'interesse spasmodico dei pm per le inchieste "piccanti". Napolitano comincia a sondare mezzo establishment italiano di sinistra, da Carlo De Benedetti a Romano Prodi, sull'ipotesi di un governo guidato dall'ex-commissario Ue, Mario Monti. Ne parla con il diretto interessato e, addirittura, un amico di quest'ultimo, l'ex-Ad di Banca Intesa, Corrado Passera, mette nero su bianco, nel corso dell'estate, un programma di governo. Basterebbero questi parlottii, più o meno innocenti, che a Roma e Bruxelles si rincorrono per tutta l'estate, a delegittimare anche il più stabile dei governi.

I mercati finanziari contro il Cavaliere

Poi, comincia la speculazione finanziaria, il 30 giugno del 2011 si scopre che Deutsche Bank mette in vendita 8 miliardi di euro di titoli di Stato italiani su 9 che ne ha in portafoglio (per poi ricomprarli in buona parte nelle settimane successive). Eppure, appena cinque giorni prima Bruxelles aveva dato l'ok alla politica economica del governo di Roma. Ma niente da fare: i mercati cominciano ad essere capricciosi, insieme al famigerato spread, e con loro le istituzioni europeee la politica italiana.

In un mese tutto cambia. I primi di agosto la Bce fa sapere che per supportare i titoli di Stato italiani, il governo di Roma deve mettere in cantiere un'altra manovra. Le richieste le prospetta Daniele Franco, all'epoca direttore relazioni internazionali della Banca d'Italia e attuale ragioniere dello Stato. In 24 ore, quelle richieste partono per Francoforte, prendono le sembianze di una lettera della Bce,e tornano in Italia. Ora il meccanismo è pronto a scattare. A Roma, ministri come Romani, Brunetta, Mattioli, Calderoli tentano di mettere insieme un'ipotesi di manovra per 65 miliardi di euro. Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, invece se ne sta in disparte, i maligni dicono irretito sempre dal Quirinale, che in quell'estate sfoggia tanti scenari per Palazzo Chigi. In realtà il ministro dell'Economia non ci crede più. Qualche settimana dopo avrà uno scontro con il Premier. "I mercati e l'Europa vogliono far fuori te" gli dice. "Certo dopo che hai passato un anno a sputtanarmi in giro per il mondo!", gli risponde a muso duro Berlusconi.

Le mosse di Napolitano

"Tremonti nei consigli dei ministri" racconta Paolo Romani, in quel momento ministro dello Sviluppo "alzava il ditino come Charlie Chaplin per dire a Berlusconi, guarda che il differenziale con l'Europa sei tu. Lui e Frattini giocavano una partita ambigua nelle capitali estere. Vedo che oggi gira il nome di Frattini come possibile premier se vincerà il centrodestra il 4 marzo: non lo ritengo possibile".

La situazione si trascina. Fino a quando nella prima decade di novembre, dopo i sorrisini beffardi su Berlusconi della Merkel e di Sarkozy al vertice europeo di Bruxelles, si assiste al colpo finale. Napolitano fa due mosse, che sono un po' la cartina di tornasole della vera finalità dell'operazione: far fuori Berlusconi. Nega l'uso del decreto per l'approvazione della manovra economica che doveva tranquillizzare la Ue: mandando, nei fatti, il premier disarmato al G20 di Cannes del 3 novembre e ledendo l'autorevolezza del governo. "Tremonti dice che non c'è bisogno", è la motivazione formale del capo dello Stato (due mesi dopo darà l'ok ad un decreto del governo Monti, che ricalca per buona parte quello che voleva presentare Berlusconi). E il 9 novembre nomina Mario Monti, senatore a vita: un segnale per dire al Parlamento che il nuovo premier è pronto. Tant'è che dopo pochi giorni la maggioranza del Cavaliere si sfalda.

Ancora ora, parlando dei fatti di quell'estate, Berlusconi si meraviglia che nessuno si sia scandalizzato, che in questi anni non ci sia stata una riflessione nel paese. "Quello che è successo è davvero troppo grave per non determinare conseguenze giudiziarie", è arrivato a dire. Ma si tratta di urla alla luna. Semmai quanto è accaduto può essere un monito per il futuro. "In quelle settimane" ricorda Denis Verdini, che ebbe il compito di rammendare i buchi nella maggioranza in quell'anno vissuto pericolosamente, "c'era una sorta di insofferenza, che emanava precarietà, da parte di tutti quelli che avevano rapporti internazionali, o con l'Europa. I vari Tremonti, Frattini, Mario Mauro, Gaetano Quagliarello, davano l'impressione, infatti, di essere pronti a lasciare la nave. E oggi molti di questi sono di nuovo nelle liste di Forza Italia, dopo che già nel 2013 abbandonarono Berlusconi in mezzo ai guai".

Il riscatto di Berlusconi

Vero è, però, che nel frattempo anche in Europa qualcosa è cambiato, che lo scontro tra artefici dello sviluppo e del rigore, si è fatto più equilibrato e che molti di questi ultimi hanno pagato i propri errori, mentre Berlusconi è tornato in auge. E poi al Quirinale non c'è più Napolitano. "Cosa abbiamo sbagliato?" si chiede Renato Brunetta, un altro che in quei mesi è stato sulle barricate. "Siamo stati troppo remissivi. Dovevamo rispondere a muso duro anche a Napolitano! Dovevamo dire di no alla guerra contro Muhammar Gheddafi e Berlusconi non doveva controfirmare la nomina di Monti senatore a vita. Comunque, con gli occhi di oggi, si può dire che ha vinto Berlusconi. Sarkozy non c'è più, Merkel conta molto meno. E i fautori della politica dal rigore lacrime e sangue, si sono fatti più rari. Anche in Europa".


Articolo pubblicato sul n° 9 di Panorama in edicola dal 15/2/2018 con il titolo "E a Roma scattò l'ora X"


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Keyser Soze