L'arretratezza italiana secondo Michela Marzano
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L'arretratezza italiana secondo Michela Marzano

Le impressioni della ex professoressa di Filosofia Normale a pochi mesi dall'ingresso a Montecitorio come parlamentare Pd

 

 Nel 2013 una telefonata di Enrico Letta. Dopo poche ore, una chiamata di Pierluigi Bersani. Ventiquattro ore di tempo per decidere. E da entrambi un invito: «Venire in Italia a lavorare per una società più giusta ». E’ andata così che Michela Marzano, nata a Roma nel 1970, laureata alla Normale di Pisa nel 1993, sbarcata a Parigi nel 1999 con un dottorato di ricerca, e oggi, dopo 15 anni, titolare della cattedra di Filosofia Normale all’università Paris Descartes, ecco, è andata così che Michela Marzano ha rifatto la valigia e nel 2013 è tornata a casa. «Oddio, all’inizio non è che avessi particolarmente voglia di accettare, perché la mia vita mi piaceva già perfettamente. Però arriva il momento in cui devi accettare di sporcarti le mani, e non solo criticare».

A proposito di criticare: com’era l’Italia, vista dalla Sorbona?
«Un paese arretrato. Un paese che non ha ancora avuto il coraggio di affrontare i temi… ecco, basta vedere come li chiamano: temi eticamente sensibili. Che è un’espressione assolutamente vuota. Dal punto di vista filosofico, o tutto è assolutamente sensibile o nulla lo è».

Cominciamo male.
«In Italia il dibattito culturale e politico è arretratissimo. Altrove, per esempio, c’è una netta separazione tra Stato e Chiesa, e quando si interviene lo si fa per portare avanti un discorso strutturato, non per difendere posizioni ideologiche preconcette. Qui, invece, quando comincio a parlare del principio di autonomia vedo che gli sguardi cominciano a farsi vuoti. La gente non capisce proprio di cosa stia parlando. Non sa cos’è il principio di autonomia, di dignità, di giustizia, non capisce che non sono parole inutili ma hanno dietro tutta una riflessione filosofica importante da cui sono nate, per esempio in Francia, leggi all’avanguardia rispetto all’Italia».

Un esempio?
«La legge sull’omofobia. Ancora oggi c’è chi è incapace di distinguere tra insulti veri e propri e semplice espressione di idee e opinioni»

Per questo è difficile, in Italia, fare una buona legge?
«Non si può, ripeto, staccare la vita legislativa di un paese dalla sua elaborazione culturale e filosofica».

Perfetto. Lei dunque è partita dalla Sorbona, piena di tante belle idee, e arrivata a Montecitorio cos’ha scoperto?
«Che niente è andato come doveva andare. Risultati elettorali imprevisti, strana maggioranza, governo di larghe intese, necessità di fare compromessi per tenere in piedi un governo di servizio perché i bisogni del paese sono enormi… Ciò detto: ci si dimentica sempre che esistono altri bisogni altrettanto fondamentali ed essenziali».

La filosofia?
«Quando si dice che dobbiamo adeguarci alle richieste che ci vengono dall’Europa, dimentichiamo di citare che ci sono anche richieste a livello di diritti, cioè su temi in cui l’Italia è l’ultima della classe»

Riconoscimento delle coppie gay, adozioni ai single, pari dignità tra i sessi… Enrico Letta non ne ha citato nessuno nel famoso discorso alle Camere con cui ha chiesto la fiducia.
«E infatti io l’ho subito regretté, come si dice in francese. Non si può invocare l’Europa solo e sempre sulle questioni economiche. L’Europa è fatta di molto altro. L’Europa è anche e soprattutto cultura e porta avanti un progetto collettivo di società e un modello di essere umano»

Ecco: ma a noi italiani, in fondo, interessa?
«Non lo so. Nel discorso di Letta ho colto solo un accenno alla questione delle donne. Non ho sentito una sola parola su omosessualità, bioetica, o riferimento alla riforma di una legge che vista fuori dall’Italia scandalizza tutti, cioè la legge 40: una legge già fatta a pezzi dalla corte costituzionale eppure tenuta in piedi, a tutti i costi e coi suoi mille difetti, pur di non aprire le porte all’inseminazione eterologa. Guardi che l’inseminazione con donatore in Francia è stata approvata addirittura nel 1994! Quasi 20 anni fa!».

Insomma: rimpiange di essere venuta?
«No. Imparo delle cose. Per esempio che il parlamento è una scuola di umiltà».

Cioè?
«Sto imparando cosa significa azzerare le proprie competenze. Qui dentro non c’è riconoscimento delle competenze specifiche. Uno vale uno, come dice Grillo, e da un lato è giustissimo ma dall’altro le competenze sono tante e sarebbe più giusto utilizzartele nel migliore dei modi. Invece non vengono né riconosciute né valorizzate né utilizzate.»

E lei?
«Io, che vengo dalla direzione del Dipartimento di Scienze sociali della Sorbona, qui sto imparando a tacere. Non perché io abbia motivi particolari per tacere, proprio io, ma perché in generale chi tace è più apprezzato di chi parla e crea problemi».

Raccomandazione imposta da chi? Dal partito?
«Penso che sia un sistema generalizzato. Basta vedere cosa succede tra i 5 stelle! Ci sono quelli che possono o devono parlare, i portavoce, e quelli che è meglio che stiano zitti. Esiste un sistema che premia chi tace, chi obbedisce, chi è fedele al leader o al capocorrente. Un sistema che premia la fedeltà più che la capacità. Poi tutti si riempiono la bocca: dobbiamo valorizzare il merito! Ma cerchiamo di essere coerenti, per favore. Le competenze vanno valorizzate nella ricerca universitaria ma sarebbe importante che anche la classe politica venisse strutturata in base al merito».

Ma come? Critica questo che è proprio il parlamento più nuovo degli ultimi anni? Il più giovane? Quello con più donne?
«E’ vero che l’età media si è abbassata, ed è vero che il 40 per cento sono donne. Ma non è la quantità che fa la qualità. Non è che una donna in quanto donna è necessariamente migliore di un uomo. O un giovane di un vecchio».

La cosa più bella che ha scoperto a Montecitorio?
«Il lavoro. Nelle commissioni si lavora tanto, tantissimo. Colpisce semmai la schizofrenia tra il tempo frenetico di alcuni momenti e la paralisi completa di altri».

E il momento peggiore, quello in cui si è sentita veramente una marziana a Roma?
«Il giorno dell’elezione del presidente della Repubblica, con la scoperta dell’esistenza dei 101 che hanno tradito, si, tradito la linea che insieme avevamo scelto e che probabilmente avrebbe permesso un governo di cambiamento. Per i loro interessi personali hanno deciso di non votare Prodi. Non me lo sarei mai aspettata. E chiamatemi purenaive, ma io sono traumatizzata ancora oggi».

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Laura Maragnani