GIORGIO PIETROSTEFANI
PAL POOL / ANSA
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Pietrostefani, il latitante mantenuto dallo Stato

Il terrorista di Lotta Continua vive a Parigi con la pensione dell'Inps. La sua storia e quella degli altri super latitanti degli anni del terrorismo

Cinecittà hanno già pronta la «parte seconda» della cattura di Cesare Battisti, l’ergastolano consegnato dal governo boliviano alle patrie galere con la regia del neo-presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Ovviamente non stiamo parlando degli studios capitolini, ma degli uffici della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, l’antiterrorismo italiano, che si trova proprio di fronte alla nostra piccola Hollywood.

Ai piani alti di quella che si chiamava Ucigos il direttore Lamberto Giannini e il suo braccio destro Eugenio Spina, capo dell’antiterrorismo interno, coordinati dal capo della Polizia Franco Gabrielli, stanno studiando nei dettagli l’elenco degli ultimi 30 «most wanted» degli anni di piombo, tra i quali 12 ergastolani, quelli che non sono stati graziati dalla prescrizione, una panacea che ha salvato anche nomi eccellenti della lotta armata come le due ex primule rosse Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Per qualche anno i nostri investigatori hanno pensato che ci fossero loro dietro alle nuove Brigate rosse, quelle che hanno ucciso i professori Massimo D’Antona e Marco Biagi, ma quella pista è tramontata e nessuno cerca più le due signore.

La maggior parte dei ricercati nella lista in mano al ministro dell’Interno Matteo Salvini vive in Francia e ha potuto usufruire della cosiddetta «dottrina Mitterand» sino al 2002, quando anche la Francia l’ha messa in soffitta ritenendo che l’impegno politico del presidente non rappresentasse una fonte del diritto. Da allora i latitanti hanno dovuto ricorrere ad altre ciambelle di salvataggio: motivi di salute, l’acquisizione della cittadinanza francese, magari grazie al matrimonio con cittadini d’Oltralpe, la buona condotta, fino a ragioni più squisitamente tecnico-giuridiche.

Tra i reduci parigini della stagione del terrorismo rosso il nome forse più noto è quello di Giorgio Pietrostefani, condannato insieme ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, a Milano. Fino a poco tempo fa aveva Twitter, ma solo per commentare (poco) il calcio italiano. All’inizio della latitanza, a Repubblica, giornale oggi diretto dal figlio della sua vittima, aveva dichiarato: «La mia vita è ridicola, ho 56 anni e gioco ancora a nascondino come un bambino». Alla fine il passatempo non deve essergli dispiaciuto e ci si è dedicato per altri quattro lustri. Oggi ha 75 anni, è separato, ha subito un trapianto di fegato, ma può usufruire di una pensione di vecchiaia dei lavoratori ex Inpdai erogata dall’Inps: oltre 1.500 euro al mese a partire dal 2017. Sì, avete letto bene.

STRATEGIA DELLA PENSIONE

L’istituto previdenziale presieduto da Tito Boeri paga un assegno mensile a un latitante, consentendogli di fatto di restare lontano dall’Italia. Per raggiungere l’agognato traguardo, dal 2000 al 2015, Pietrostefani ha versato in Francia 12 mila euro all’anno, contributi che in base a una convenzione esistente tra i due Stati sono stati riconosciuti dal nostro Paese. «Risultano periodi di lavoro all’estero comunicati dagli enti previdenziali di Francia. Tali periodi potranno essere presi in considerazione ai fini della liquidazione di una pensione italiana alle condizioni e nei limiti previsti dagli accordi internazionali» si legge nella scheda di Pietrostefani. «Potranno» e non «dovranno», ma comunque «tali periodi» sono entrati nel computo.

In Francia Pietrostefani, architetto e dirigente d’azienda dagli interessi poliedrici, ha fatto il consulente d’affari e gestionale. Il suo ufficio era a due passi dal Louvre, al numero 20 di Rue de la Banque. Dal 2017, quando è andato in pensione, si è spostato in un indirizzo meno sfarzoso. Ma come è arrivato a racimolare un simile assegno, essendo stato praticamente sempre sotto indagine o latitante a partire dagli anni Settanta? Intanto, ha riscattato gli anni dell’università e vi ha aggiunto quattro anni di lavoro (1979-1983) non meglio precisato. Tra il 1983 e il 1992, per un totale di otto anni e 9 mesi, è stato assunto come manager presso la Finanziaria Ernesto Breda e poi è diventato consigliere d’amministrazione delle Reggiane officine meccaniche italiane. In quei nove anni ha visto crescere il proprio stipendio da 12 a 100 milioni di lire (1991).

In Breda è rimasto cinque anni superando i 50 milioni di retribuzione, mentre nelle Officine è entrato nel 1988, con una retribuzione di quasi 70 milioni l’anno. Sempre nell’88 è stato arrestato e poi rilasciato. Ciò non gli ha impedito di veder crescere i propri emolumenti. In tutto in Italia ha dichiarato redditi a fini previdenziali per un ammontare di poco meno di 300 mila euro. Iscritto alla Cassa nazionale di assistenza di ingegneri e architetti e all’Ente nazionale di assistenza agenti e rappresentanti di commercio, nel 1992, ha lasciato il lavoro e nel febbraio 1993 è stato autorizzato alla contribuzione volontaria. Nel 1997, dopo sette processi, la Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna per lui, Sofri e Bompressi.

UN confronto impietoso

Dopo la sentenza ha scontato solo tre anni di pena e nel 2000 si è rifugiato in Francia dove ha ripreso a versare i contributi, mettendo da parte ulteriori 180 mila euro. Nel 2017 ha iniziato a riscuotere a Parigi il sospirato assegno italiano: ricevendo 21.740 euro netti nel primo anno (1.811 euro al mese di media) e «solo» 17.700 (1.475) nel 2018. A gennaio 2019 ha incassato una rendita da 1.565 euro e grazie a questa vive a Parigi, coccolato dai tanti amici che in Italia e in Francia hanno sempre tifato per lui. Di fronte a tali cifre bisogna ricordare che la vedova del commissario Calabresi, Gemma Capra, percepisce una pensione di reversibilità di 400 euro. È un vitalizio quasi quattro volte inferiore rispetto all’assegno di Pietrostefani, che per fortuna è integrato da una personale pensione di vecchiaia.

Ma non ci sono solo i latitanti di sinistra a ricevere l’assegno previdenziale. Anche l’ex avanguardista nazionale Mario Pellegrini (ricercato come i suoi due camerati Vittorio Spadavecchia e Pierluigi Bragaglia), originario di Papozze (Rovigo), riceve una pensione da artigiano da meno di 800 euro al mese. Nel 2002 è stato arrestato a San Isidro, in Argentina e gli è stata notificata una condanna definitiva a 12 anni e 6 mesi di reclusione (che deve ancora scontare) per concorso nel sequestro del banchiere Luigi Mariano, compiuto nel 1975 in cambio di un riscatto da 280 milioni di lire.

UN BRIGATISTA È PER SEMPRE

L’enclave italiana di rifugiati in Francia include anche un buon numero di condannati all’ergastolo. A Parigi vive con marito e figlio Roberta Cappelli, anche lei laureata in architettura. Nel 1995 la Chambre d’accusation ha dato parere favorevole all’estradizione, ma la dottrina Mitterand ha bloccato tutto. Nel 2004 Cappelli ha rivendicato: «La mia libertà è ormai un diritto acquisito». Ha lavorato prima come babysitter, poi in una casa editrice di fumetti ed è stata a lungo rappresentante dei genitori nella scuola del figlio. Ha fatto anche la responsabile vendite di un’azienda e oggi si occupa di risorse umane. Ma forse i giovani che vengono selezionati da questa signora di mezza età non immaginano che, 40 anni fa, doveva individuare non persone da assumere, ma da abbattere. Una responsabilità per cui non ha accettato di pagare pegno. Attualmente vive  a pochi passi dalla Camera del lavoro, in un palazzo che delle eleganti linee parigine non ha nulla: somiglia più a un edificio sovietico.

Dovrebbe trovarsi in Francia pure un altro condannato a vita: il 67enne genovese Lorenzo Carpi, uno degli autori materiali dell’omicidio del sindacalista Guido Rossa. Stessa pena per Enrico Villimburgo, classe 1954, tecnico informatico ed ex componente della colonna romana delle Br. Fino a qualche anno fa era domiciliato in una piccola via non lontano dalla chiesa di Notre-Dame-de-Lorette. Nonostante faccia poca vita sociale, gigioneggia su Facebook e gioca ancora a fare il barricadero. L’unica precauzione è quella di cambiare sui social il nome in «Enrique». La foto di copertina è dedicata ai vietcong, mentre quella del profilo ritrae un omone armato con il passamontagna con dietro una bandiera del Venezuela di Nicolás Maduro. Si interessa anche di politica italiana, Villimburgo: «A proposito di fascisti e venendo ai “problemi Italiani”...  Qualcuno saprebbe indicarmi i superstiti comunisti rimasti in circolazione? Sono convinto che si possono contare sulla dita di una mano considerando l’esodo infame di chi comunista, socialista o anche anarchico non lo è mai stato è ormai votato al M5s. Il partito di Grillo, la Raggi, Di Maio, Casaleggio & c. tutti figli di vecchi nostalgici fascisti».

Parole d’ordine CHE corrono SU FACEBOOK

Su Internet Villimburgo ne ha anche per gli odiati yankee («Il fascista ratto-imperialista Donald Trump deve essere fermato al più presto con ogni mezzo. In caso contrario esso ridarà vita al nazifascismo») e nel 2011 invocava un ritorno alle armi («Come comunisti rivoluzionari è necessario giungere a una reale solidarietà combattente, colpendo uomini e strutture dell’attuale governo... La parola d’ordine d’oggi è quella di organizzare la lotta armata contro la politica mafio-fascista del governo Berlusconi»). Le tracce social di Villimburgo portano anche alle milizie marxiste-leniniste attive nella regione del Donbass, in Ucraina, attraverso una sedicente (e seducente) militante bionda di nome Alessia S. a cui il terrorista non ha mancato, su Facebook, di fare arrivare i propri complimenti.

Villimburgo nel 2016 risultava anche in contatto con «Mario Tornaghi» (omonimo di Sergio Tornaghi, altro brigatista latitante con ergastolo da scontare), sedicente membro dell’Interunit, la compagine internazionale della cosiddetta Brigata fantasma, tra le armate filorusse, la più nostalgica del periodo sovietico. Su Facebook Villimburgo ha dedicato un pensiero anche a Pedro Alvarez de la Rua, «caro amico e combattente delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie colombiane, ndr)».

Ha le mani che ancora prudono anche l’ex compagno di Simonetta Giorgieri, Gino Giunti, a cui restano 4 anni e 6 mesi da scontare in Italia. Barba e chioma canute da anziano Jedi, sui social solidarizza con la Palestina (come Franco Pinna, altro terrorista rifugiatosi in Francia), ma soprattutto si segnala come acceso sostenitore della rivolta dei Gilet gialli, dei quali pubblica le foto e i video degli scontri con la polizia, che forse gli restituiscono il brivido di quando nelle campagne intorno a Montignoso, in Versilia, vagheggiava la rivoluzione. Ora, un po’ imborghesito, fa la sua parte da un appartamentino di Mansle, nord-ovest della Francia, e non disdegna di segnalare tra i «preferiti» il sito «Fatto in casa da Benedetta (Parodi, ndr)» e la trasmissione Striscia la notizia.

   

in ESILIO TRA LE VIE DI MONTMARTRE

Stile di vita ben diverso quello del conte Paolo Ceriani Sebregondi, figlio di due eroici partigiani (il padre Giorgio è stato uno dei capi della Resistenza cattolica e, per il ministero degli Esteri, ha partecipato alle trattative per la costituzione della Cee). Condannato all’ergastolo risiede in una strada esclusiva di Montmartre. La sua casa è in un palazzotto costruito durante la Belle Epoque, dove quattro stanze costano non meno di 800 mila euro (la quotazione media nella zona è di oltre 7.500 euro al mq). Ceriani Sebregondi è stato a capo dei docenti di informatica e vicepreside di un liceo cattolico vicino al Jardin du Luxembourg, dove ha successivamente lavorato anche la figlia avuta con la compagna brigatista Paola De Luca negli anni del terrorismo. La ragazza è nata nell’anno del sequestro Moro (1978) e su Internet ha dedicato una poesia sul suo stato di figlia di latitanti, pubblicata tanti anni fa su un sito in difesa di Cesare Battisti: «La loro lotta non è mia, ma sono sconfitta. Prendo i vetri rotti senza aver ballato alla festa. Conosco le canzoni, ma non riesco a sollevare il braccio. Ho imparato a espiare prima di sapere come camminare».

Nella lista dei latitanti che dovrebbero scontare l’ergastolo c’è anche Marina Petrella, nome di battaglia Virginia, condannata al carcere a vita nel processo Moro-ter. La signora si trova in Francia da un quarto di secolo. Ha lavorato come animatrice in una scuola materna e come maestra. Nel 2006, è stata assunta da Stéphanie Lacroix alla «Loca’rhythm», un’agenzia immobiliare con vocazione sociale che si occupa di trovare alloggi per le famiglie in difficoltà. L’anno dopo, si è diplomata come assistente sociale, campo nel quale opera tuttora. Ha avuto due figlie da un italiano e da un algerino. Da quest’ultimo si è separata da qualche tempo. L’ultimo domicilio conosciuto è ad Argenteuil, comune di 100 mila abitanti nel dipartimento della Val-d’Oise. Nel 2007 è stata lì lì per essere rimpatriata, ma alla fine l’allora presidente Nicolas Sarkozy preferì lasciar perdere. Forse a convincerlo fu la stessa Virginia: «La Francia rinnega se stessa, e l’Italia agisce per pura vendetta» protestò. «Tutti noi ci siamo costruiti in Francia una nuova vita, senza negare quello che siamo stati».

quelL’UNICORNO contro il poliziotto

Su Facebook la figlia maggiore Elisa, che condivide l’amicizia virtuale con la br Barbara Balzerani e con un altro latitante italiano, Maurizio Di Marzio, ha lasciato agli atti un duro atto d’accusa contro «quelli che poi sono stati chiamati “pentiti”». Nell’immagine del profilo si vede un unicorno di quelli che piacciono tanto alle bambine mentre infilza un poliziotto. «Anything is possible», tutto è possibile, recita la didascalia.

  Si è autoesiliato in Francia anche Narciso Manenti, un altro condannato che deve scontare un ergastolo. Dopo la cattura di Battisti e la richiesta da parte sua di un’amnistia per i terroristi, si è prudentemente cancellato da Facebook e Instagram. È l’operaio tuttofare  in un piccolo centro nella Loira. Abita in una casa a due piani che è anche la base della piccola azienda che gestisce direttamente. Si occupa di manutenzioni domestiche (elettricista, giardiniere, idraulico) e si fa pubblicità sul web con offerte promozionali che partono da 30 euro a chiamata.

L’EVERSORE SALE IN CATTEDRA

Vive invece in Svizzera Alvaro Baragiola Loiacono, altro ex brigatista che si sottrae dall’ergastolo. Rampollo di una famiglia molto abbiente, approfittò della rete di protezione dei genitori. In una delle lussuose ville materne, disseminate tra la Svizzera e la Corsica, venivano organizzati party a base di vini esclusivi con influenti membri del Consiglio di Stato tra gli ospiti. Forse per questo la permanenza in prigione di Alvaro fu una parentesi istantanea. Più di quarant’anni dopo nell’Università di Friburgo, dove ha frequentato un corso di giornalismo, fa l’assistente presso il Dipartimento di economia e scienze sociale e si occupa di temi che, conoscendo il suo curriculum, suonano un po’ inquietanti. Ecco l’elenco delle sue abilità e competenze: «soluzione dei conflitti», «studi su pace e conflitti». «sicurezza internazionale», «geopolitica», «studi sul Medioriente», ma anche, non poteva essere altrimenti, «terrorismo». Alla trasmissione delle Iene, che lo ha di recente intervistato, ha detto di essersi naturalizzato svizzero per sfuggire alla giustizia italiana, ma si è anche dichiarato pronto a espiare la pena nel suo nuovo Paese. Ha anche sostenuto di non temere Salvini («Non mi fa paura») e di dubitare che «venga fisicamente qui a far qualcosa». Infine, ha ammesso di sentirsi il secondo nella lista del vicepremier, dopo «Alessio».

Il riferimento di Loiacono è al romano Casimirri, cresciuto in Vaticano da una famiglia di funzionari del Papa. È stato condannato all’ergastolo per il sequestro Moro e, in particolare, per la partecipazione all’agguato di via Fani. È riparato in Nicaragua, dove ha messo su famiglia. A Managua gestisce il ristorante «Gastronomia el Buzo» (che significa «il sub») e nel menù offre un piatto di spaghetti dedicato al br scomparso Prospero Gallinari. Gli oppositori del presidente Daniel Ortega, che difendono l’autonomia del distretto di Masaya, accusano la figlia Valeria Casimirri di far parte delle squadre di repressione sandiniste, con cui avrebbe collaborato pure il padre.

Restando oltreoceano, si troverebbe a Cuba un altro sostenitore dei Gilet gialli, Franco Coda. Sull’isola del Che e di Fidel avrebbe trovato ospitalità, stando ai racconti che ancora si tramandano i vecchi compagni della sezione Pci di Camogli (Genova), anche Livio Baistrocchi, definito dal professor Enrico Fenzi «l’unico vero terrorista» che avesse conosciuto nelle Brigate rosse. In Argentina ha fatto perdere le proprie tracce un altro br, Leonardo Bertulazzi e in Perù si sarebbe nascosto il 73enne milanese Oscar Tagliaferri, undicesimo nome nell’elenco degli ergastolani in fuga.

Già, il Sudamerica, con i suoi spazi sterminati, potrebbe essere il set perfetto per la «parte seconda» del film che in questi giorni si sta preparando a Cinecittà. 

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