Peter Kassig non è stato al gioco dell'Isis
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Peter Kassig non è stato al gioco dell'Isis

Perché il video in cui è annunciata al sua decapitazione è diverso da tutti gli altri

Peter era una preda importante per l'Isis. Era un ex ranger dell'esercito americano e aveva servito in Iraq. Abbandonato le armi era diventato un instancabile operatore umanitario. Era stato sequestrato in Siria e durante la sua prigionia si era convertito all'Islam. Era finito nelle mani dell'esercito del Califfato. E con tutta probabilità aveva capito fin da subito quale sarebbe stata la sua sorte.

Il 26enne di Indianapolis che aveva assunto il nome di Abdul-Rahman dopo la conversione, sapeva bene cosa gli sarebbe successo. E non ha voluto stare al gioco. Almeno questo è ciò che pensano gli esperti dopo aver analizzato il video in cui l'Isis annuncia la sua decapitazione.

Il filmato che dura 16 minuti non mostra il macabro rito a cui sono stati sottoposti gli altri ostaggi: la lettura di una dichiarazione fatta in ginocchio con indosso una tuta arancione che ricorda quelle utilizzate a Guantanamo, l'uomo con l'accento britannico che avvicina il coltello al collo del prigioniero e poi  una sequenza dopo, montata ad arte,  la testa posta sopra il corpo.

In questo video, l'orrore non è inferiore. Anzi. Il filmato dell'Isis mostra tutti i particoli della decapitazione di 16 soldati siriani, tutti vestiti con una tuta blu. Solo alla fine del video, negli ultimi trenta secondi si vede un miliziano incappucciato ai piedi del quale c'è una testa umana. È quella di Kassig, come sarà poi confermato dalle autorità americane.


Il nemico in casa: gli occidentali che combattono con l'Isis


Il boia ha un accento britannico camuffato. Forse è quel 'Jihad John' protagonista dei video delle decapitazioni degli altri ostaggi occidentali. Forse non è lui perché alcune notizie lo davano ferito durante un bombardamento americano.

Comunque sia il miliziano dice che Peter è stato ucciso perché ha combattuto contro i musulmani in Iraq e che i soldati americani faranno la stessa fine dei militari siriani la cui uccisione viene mostrata nel filmato. Il video è ad alta definizione, ma è girato in modo amatoriale. Non ci sono le inquadrature e i montaggi dei predecenti.

Non c'è lo stile professionale, quasi hollywoodiano di questa 'industria' dell'immagine e dell'orrore. Perchè? I motivi potrebbero essere due. Il primo è che l'Isis è in difficoltà. La pressione militare americana è forte. Non c'è più la possibilità di mettere in scena il solito macabro spettacolo. I droni, i satelliti e gli aerei sorvegliano ogni metro del territorio siriano in mano all'esercito del Califfato. Un set cinematografico non sfuggirebbe.

L'altra ipotesi, più probabile è che Peter Kassig abbia deciso di non collaborare con i suoi aguzzini. Che sapesse della fine che avrebbe comunque fatto e che quindi non si sia prestato alla loro messinscena. Era stato un soldato, in missione in Iraq per un anno, tra il 2006 e il 2007. Era stato addestrato a come comportarsi in caso di cattura da parte del nemico. Aveva poi trascorso molti mesi in Siria come operatore umanitario. Aveva avuto il tempo di comprendere cosa era l'Isis.

Per questo, ipotizzano analisti e amici,  ha resistito. Non si è fatto uccidere senza combattere, per quello che ha potuto fare. Si è rifiutato di leggere messagi, di mostrarsi come un agnello sacrificale. Se fosse così, perché allora l'Isis non ha voluto comunque mostrare qualche fotogramma in più rispetto alla sua uccisione ? Forse perché avrebbero fornito la prova della resistenza di Peter. E per l'Isis questo sarebbe (stato) un problema. Ne sarebbe uscito un messaggio di debolezza e non di forza.

Nessuno sa quali siano stati gli ultimi istanti di vita di Peter Kassig. Mitchell Prothero, un americano che ha condiviso per otto mesi l'appartamento di Beirut con il 26enne di Indianapolis ha affermato che l'ex ranger era troppo consapevole della situazione per prestarsi al gioco dell'Isis. L'ultimo suo atto è stato quello di far saltare i piani di 'comunicazione' dei suoi assassini.

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I profughi in fuga dall'Isis

BULENT KILIC/AFP/Getty Images
Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014

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Michele Zurleni

Giornalista, ha una bandiera Usa sulla scrivania. Simbolo di chi vuole guardare avanti, come fa Obama. Come hanno fatto molti suoi predecessori

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