Perché la Turchia combatte i curdi e aiuta l'Isis
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Perché la Turchia combatte i curdi e aiuta l'Isis

Le accuse di complicità col nemico e ora anche i bombardamenti contro i curdi dimostrano che Ankara combatte una guerra parallela

Per Lookout news

La Turchia non ha alcuna intenzione di ingaggiare un conflitto a fuoco contro lo Stato Islamico, né vuole concedere agli Stati Uniti la base di Incirlik perché gli americani possano aiutare i curdi a non far capitolare Kobane, al confine turco-siriano. Anzi, la strategia di guerra di Ankara è diametralmente opposta a quella di Washington e lo ha dimostrato ieri, quando ha iniziato a bombardare i ribelli curdi del PKK, il partito dei lavoratori curdi di Abdullah Ocalan (leader in carcere dal 1999), che da trent’anni sono in lotta contro la Turchia per ottenere l’indipendenza. Aerei da guerra F-16 e F-4 hanno bombardato obiettivi curdi nella provincia turca di Hakkari, al confine iracheno, nonostante il cessate-il-fuoco che reggeva dal marzo del 2013. Secondo fonti locali, il villaggio di Daglica è quello che ha subito i maggiori danni. L’attacco al PKK, che viene ancora oggi definito “organizzazione terroristica” dai governi occidentali, toglie dunque il velo alle ambiguità del governo Erdogan, che sinora aveva frenato ogni coinvolgimento diretto nella guerra. L’obiettivo della Turchia è ormai esplicito: oltre a volere la cacciata di Bashar Assad dalla Siria, Ankara ha intenzione di estirpare definitivamente la minaccia curda dal territorio turco, la cui indipendenza ed eventuale creazione di uno stato autonomo, denominato Kurdistan, non rientrano nei programmi dell’AKP, il partito politico del presidente turco.

 

I curdi nel tritacarne della lotta al Califfato
I curdi sono dunque finiti nel bel mezzo della guerra come vasi di coccio tra vasi di ferro e rappresentano ormai l’ultimo argine all’avanzata del Califfato, la cui resistenza è messa alla prova tanto in Iraq quanto in Siria: da una parte, le forze di difesa del popolo (YPG) vengono attaccate dallo Stato Islamico in Siria, dall’altra i soldati Peshmerga sono sotto il fuoco di IS nel nordest dell’Iraq. E ora scopriamo che sopra i curdi piovono anche le bombe turche.

 Essendo la popolazione curda sparpagliata tra quattro Stati mediorientali - Turchia, Siria, Iraq e Iran - si può comprendere come l’accerchiamento trasversale di Paesi che sono divisi su tutto ma che si ritrovano a condividere l’obiettivo di “eliminare” il problema curdo dal proprio territorio, apra una finestra inedita sui reali motivi di questa grande guerra.

 Solo Teheran, silente su ogni fronte di guerra al punto che si sospetta stia preparando una qualche sortita in gran segreto, non sembra preoccuparsi delle forze curde. L’Iran sciita, infatti, sopra ogni cosa teme l’avanzata degli jihadisti sunniti nel resto dell’Iraq, che un domani potrebbe costituire un serio problema al confine.

 Per il resto, gli uomini e le donne di etnia curda - un popolo composto da 30 milioni di senza patria, di cui 12 milioni nel solo territorio turco - hanno ragione di temere questa guerra, poiché sono un bersaglio per molte delle forze che combattono nella regione.

 


I curdi sono dunque finiti nel bel mezzo della guerra come vasi di coccio tra vasi di ferro e rappresentano ormai l’ultimo argine all’avanzata del Califfato

Il rapporto tra Turchia e Stato Islamico
Il parlamento di Ankara ha approvato da settimane l’intervento di truppe in Siria e Iraq, ma i carri armati turchi schierati lungo il confine per il momento osservano senza intervenire la caduta di un villaggio dopo l’altro, per mano dell’IS. Perché? La Turchia è accusata di aver favorito il Califfato, permettendo a migliaia di volontari jihadisti giunti anche dall’Europa, di entrare nei territori occupati di Siria e Iraq per dare man forte al Califfato.

 Non solo. Si ha contezza di almeno mille cittadini turchi confluiti nelle fila dell’IS e i media tedeschi (Die Welt e ARD TV) hanno rivelato come il reclutamento dei volontari jihadisti avvenga proprio all’interno del territorio turco, per di più alla luce del sole. Inoltre, Ankara è accusata di commerciare petrolio con Mosul e Raqqa, le due capitali del Califfato. Buona parte dei proventi dei giacimenti petroliferi controllati dallo Stato Islamico deriverebbe proprio dall’esportazione del petrolio in Turchia. La gran parte del carburante proveniente dalle raffinerie controllate da IS, infatti, raggiunge sia Damasco - dunque anche il regime di Assad traffica con lo Stato Islamico - sia soprattutto la Turchia, dove viene venduto al dettaglio a prezzi molto convenienti, circa un terzo inferiori a quelli del mercato ufficiale. Il carburante giunge in Turchia attraverso autocisterne che si fermano a Gaziantep, nel sudest del Paese, dove avviene lo smistamento al mercato nero.

 Basi jihadiste in Turchia
Ma a Gaziantep si commetterebbero crimini ben peggiori: sempre secondo i media tedeschi, qui si troverebbero centri di reclutamento e di addestramento per jihadisti, che una volta completato il training attraversano tranquillamente il confine e vanno a ingrossare le fila dello Stato Islamico. In effetti, il governatore della provincia di Gaziantep, Erdal Ata, ha segnalato una situazione difficile in città e l’arresto a settembre di 19 soldati dello Stato Islamico sembra avvalorare i timori, sebbene il governatore non confermi tali indiscrezioni. Dunque, Ankara favorisce l’infiltrazione di jihadisti in Siria e Iraq, finanzia e commercia con lo Stato Islamico, attacca i curdi che combattono IS e, pur essendo un Paese NATO, è indisponibile ad assoggettarsi alle regole degli Stati Uniti.

 Questo significa che la Turchia oggi è alleata solo di se stessa e, del resto, ha la forza e i mezzi per seguire la propria politica in maniera indipendente e libera. Il che è certamente un successo politico per Erdogan, nonché una dimostrazione di potenza per tutte le fazioni che combattono a vario titolo ai confini turchi.

Ma quello di Ankara è anche un gioco molto pericoloso e, prima o dopo, qualcuno gliene chiederà conto.

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Luciano Tirinnanzi