La Palestina con l'intesa ma senza pace
EPA/MOHAMMED SABER 
News

La Palestina con l'intesa ma senza pace

Cosa prevede l'accordo tra Fatah e Hamas che non risolverà tutti i problemi

per LookOut News

Non piace agli Stati Uniti l’intesa raggiunta da Hamas e Fatah (guida dell’OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina), le due anime una intransigente e l’altra moderata del popolo palestinese. L’annuncio del “patto di unità” – non il primo ma forse tra i più importanti tra le due facce della Palestina – è stato raggiunto dopo anni di contrasti e divisioni interne che hanno portato il movimento radicale di Hamas a controllare la Striscia di Gaza e Fatah ad amministrare la West Bank ovvero la Cisgiordania.
 
L’accordo prevede un governo di unità nazionale entro cinque settimane ed elezioni nazionali entro i prossimi sei mesi, ed è stato salutato positivamente nei territori palestinesi ma condannato da altri attori regionali. Tra questi c’è ovviamente Israele, che ha anche colpito la Striscia di Gaza con una serie di missili durante la conferenza stampa che annunciava il raggiungimento dell’accordo (come risposta a nuovi razzi partiti da Gaza) e il cui premier Benjamin Netanyahu ha convocato un gabinetto di sicurezza del governo per domattina.
 
Mentre Fatah è il partito moderato guidato da Abu Mazen, il Movimento Islamico di Resistenza Hamas, invece, è ancora oggi classificato come “organizzazione terroristica” da Stati Uniti, Israele e Unione Europea. Da Washington, l’Amministrazione Obama non ha perso tempo ad avvertire che “la riconciliazione tra l’OLP e Hamas potrebbe complicare gli sforzi di pace” e che, per la prosecuzione dei negoziati con gli israeliani, è necessario che “qualunque governo palestinese, in modo inequivocabile ed esplicito, rinunci alla violenza, riconosca lo Stato di Israele e rispetti gli accordi presi e gli obblighi accettati dalle parti. L’annuncio e la scelta dei tempi sono preoccupanti e siamo certamente delusi” ha sintetizzato la portavoce del Dipartimento di Stato americano, Jen Psaki.
 
In effetti, le prime conseguenze non si sono fatte attendere. Israele ha già cancellato il nuovo incontro negoziale che si sarebbe dovuto tenere oggi con i rappresentanti dell’Autorità Palestinese (ANP). L’agenda per i colloqui prevede la scadenza al 29 aprile, ma già da diverse settimane i negoziati si erano arenati per il mancato rilascio di alcuni prigionieri palestinesi da parte di Israele. Lapidari i commenti del premier Netanyahu che, a caldo, ha dichiarato: “Chiunque sceglie Hamas non vuole la pace”, definendo il gruppo come “organizzazione terroristica che incita alla distruzione di Israele”. Parole che non lasciano certo sperare nella possibilità di un eventuale compromesso con un’entità che rappresenti sia i laici che gli islamisti palestinesi.
 
- Perché un accordo adesso?

Per quanto concerne l’intesa raggiunta in Palestina, la volontà comune di formare di un governo di unità nazionale ricompatta i due movimenti in lotta fra loro dal 2007 ma include anche le frange più estremiste della Jihad Islamica. L’obiettivo finale di tenere elezioni entro sei mesi è un altro importante segnale: l’ultima volta che i palestinesi si sono recati alle urne è stato nel 2006, con Hamas uscita come forza di maggioranza. I successivi scontri con il movimento Fatah di Abu Mazen spaccarono poi letteralmente i territori palestinesi e i numerosi tentativi di pacificazione sono finora falliti.
 
Per alcuni le difficoltà e l’indebolimento della dirigenza sia di Hamas che di Fatah sono all’origine della nuova intesa. Per Abu Mazen è forse la reazione allo stallo dei negoziati con Tel Aviv ad aver accelerato la decisione di riavvicinarsi ad Hamas. Si avverte, nella dirigenza dell’OLP, la montante frustrazione di non riuscire a portare avanti un accordo definitivo sulla realizzazione dello Stato palestinese con un premier israeliano che chiede sì il riconoscimento di Israele e l’abbandono della lotta armata, ma contemporaneamente avalla la creazione di nuovi insediamenti di coloni israeliani nella West Bank, non rispetta gli obblighi di intese già concluse e apre e chiude i varchi di confine a piacimento.
 

Fatto che paradossalmente ha creato critiche allo stesso Netanyahu, accusato dalla frange più oltranziste israeliane di essere stato troppo morbido e non aver impedito il viaggio di una delegazione di Fatah da Ramallah a Gaza City attraverso il territorio israeliano. Secondo la destra israeliana, insomma, il governo di Tel Aviv avrebbe dovuto applicare rigide sanzioni per simili viaggi in Israele. Hamas, in ogni caso, non gode di molta libertà ultimamente, a causa del blocco economico che paralizza la Striscia e per via dell’ostilità crescente dell’Egitto, non più sotto il controllo degli alleati Fratelli Musulmani ma dei militari che non vedono di buon occhio tutto ciò che proviene dal confine con Gaza e che hanno proceduto a chiudere numerosi tunnel sotterranei che collegavano i due Stati e apre e chiude il valico di Rafah, passaggio frontaliero tra Striscia di Gaza ed Egitto, ad ogni segnalazione dell’intelligence (nel 2014 il valico è stato chiuso per 81 giorni e lo ha riaperto per pochi giorni il 29 marzo).
 
- Prospettive

Nessuno scommette più di tanto sulla durata della riconciliazione tra le due anime palestinesi e Israele, a fronte degli insuccessi dei tentativi e degli accordi già raggiunti negli anni passati e mai attuati. Quello che invece sembra probabile è una prossima ritorsione di Israele sia sotto forma militare che di ulteriore allargamento degli insediamenti in Cisgiordania.  Nelle parole del capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, “Netanyhau e il suo governo hanno usato la divisione palestinese come scusa per non raggiungere la pace. Ora vogliono usare la riconciliazione come scusa per lo stesso obiettivo. Tutto questo è totalmente assurdo”. I negoziati erano già morti da tempo, la mossa palestinese sarà in effetti solo il pretesto per decretarne ufficialmente la fine.

I più letti

avatar-icon

Luciano Tirinnanzi