Noi, vittime di serie B
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Noi, vittime di serie B

Tra l’indifferenza dei grandi giornali la Procura di Savona indaga sull’inquinamento di Vado Ligure e ipotizza un’impennata di decessi negli ultimi 10 anni.  Fanno meno notizia perché la centrale a carbone c’entra con la famiglia De Benedetti?

"Morirò anch’io con un tumore, tanto lo so: come mio marito, i miei zii e i miei nonni". Alessandra Scanu ha 38 anni e un lavoro da commessa in un supermercato. Tira su con il naso mentre le si inumidiscono gli occhi, nascosti da lenti rettangolari. Dalla maglietta che le arriva fino all’ombelico si intravede una frase tatuata su un fianco: «Infinito l’amore che provo per te». È l’ultimo messaggio che le ha inviato suo marito, Richard Furfaro, morto a gennaio del 2009 a 34 anni. Nessun parente mai ammalato di tumore, eppure un carcinoma ai polmoni gli ha devastato metà del corpo. «È entrato in ospedale con il fiatone, con me al fianco. È uscito un mese dopo, dentro una bara».

Dalle finestre di casa sua s’intravedono le ciminiere della Tirreno Power, la centrale a carbone di Vado Ligure. Costruita nel 1970 e ancora in funzione. Fino al 2002 era dell’Enel, poi venne acquisita da una cordata guidata dalla Cir di Carlo De Benedetti. L’impianto ora è sotto inchiesta: la Procura di Savona ipotizza i reati di disastro ambientale e omicidio colposo. Una consulenza tecnica, consegnata ai magistrati alla fine di giugno, ipotizza un aumento di decessi, malattie polmonari e cardiorespiratorie fra le persone che vivono nei dintorni dell’impianto. Un’area dove, nell’ultimo decennio, ci sarebbero stati 1.000 decessi in più del dovuto.

Alessandra si lascia trascinare dall’accento savonese: «Qui a cinquant’anni non c’arrivi. E un perché ci deve essere, belan!». Da un cassetto tira fuori un vecchio cartellino aziendale della Tirreno Power, con la foto di Richard. «Ha lavorato anni per la centrale, la sua impresa aveva diversi subappalti». Suo marito, dice orgogliosa, era un geometra infaticabile: «È stato lui, con i suoi operai, a fare la rotonda davanti allo stabilimento. Era orgogliosissimo, di quella rotonda».
All’epoca Richard e Alessandra, con il figlio appena nato, vivevano sull’Aurelia proprio di fronte alla centrale: «C’erano giorni in cui bastava passare un dito sulla ringhiera, rimaneva nero per il carbone. Stendevi i panni e li ritiravi grigi». Ha cambiato casa, adesso. Chiusa tra il dramma del passato e il terrore per il futuro, vive in un appartamento alle porte di Vado Ligure, in via Pertinace. Suo figlio Matteo oggi ha 8 anni: vorrebbe portarlo via. «Ma un altro lavoro dove lo trovo?».  

Via Pertinace, una tortuosa strada nella valle di Vado, che si arrampica da Sant’Ermete fino a Segno. In paese, per tutti, è «la Spoon River del carbone». Le ciminiere si stagliano sulla sinistra. Giurano che, quando soffia la brezza dal mare, il vento e le polveri spazzino via Pertinace, insaccandosi negli avvallamenti brulicanti di case popolari. I metropolitani soffocati dallo smog immaginano che qui, a due passi dal Mar Ligure, si viva fino a cent’anni. Invece si campa nella paura. E nel riserbo: pochi hanno voglia di parlare. La panettiera, una bella signora ottantenne con i capelli d’argento, sibila: «Tutti si lamentano, però nessuno dice niente». Il giornalaio, un tornante più in giù, ammette: «Mio padre è morto per un tumore all’intestino, mia madre per un cancro al pancreas». Negli ultimi giorni, riferisce, la notizia dell’indagine della procura ha creato apprensione: «I clienti me ne parlano, ma poi se entra un altro cliente evitano il discorso».

A valle c’è il municipio di Vado. Il sindaco, Attilio Caviglia, è un mite insegnante eletto nel 2009 con una lista civica di centrosinistra. Il nome del raggruppamento elettorale adesso suona  beffardo: «Con Caviglia Vado Viva». Ricorda quasi con nostalgia la fine degli anni Sessanta: «Quando 1.000 persone erano impegnate nella costruzione della centrale. E tutti ringraziavano l’Enel, che portava pane e lavoro». Quarant’anni dopo, privatizzato l’impianto, Caviglia è costretto a difendersi dalle accuse di aver fatto troppo poco per i concittadini. Morte e malattia sono diventate il companatico dello sviluppo.
«La situazione è difficile» ammette il sindaco nella sua stanza, al primo piano del municipio. Anche dalla sua finestra il panorama è sempre quello: le altissime ciminiere bianche e rosse. «La centrale ci manda i dati delle emissioni, e sono in regola». Però ammette di avere cercato di incontrare i manager della Tirreno Power più volte: «Non ci sono mai riuscito».
Le agguerrite associazioni ambientaliste riunite nella «Rete savonese fermiamo il carbone» sostengono che gli effetti sull’ambiente e la salute siano devastanti. La Tirreno Power smentisce seccamente: «I dati epidemiologici a disposizione smentiscono impatti sulla salute. La società ha operato e opera nel rispetto delle normative vigenti». Intanto la questione, martedì 24 settembre, è arrivata in Parlamento. Il Movimento 5 stelle, dopo che il suo leader Beppe Grillo aveva attaccato De Benedetti e «la sua centrale», ha presentato un’interrogazione che cita un rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente, che dipende dall’Ue: «Nel 2009» scrivono i cinquestelle «la centrale di Vado Ligure ha emesso 3,6 milioni di tonnellate di anidride carbonica, 2.550 tonnellate di ossidi di azoto, 4.150 tonnellate di ossidi di zolfo. Queste emissioni, assieme ad altri microinquinanti, hanno prodotto un danno sanitario e un danno associato al carbone che oscilla tra 169 e 248 milioni di euro all’anno».

Meno scientifica, ma molto empirica, è invece la conclusione di Pietro Bovero, decano della politica vadese, consigliere comunale da 48 anni e vicesindaco dal 1990 al 2009: «Tutti sapevano e tutti continuano a sapere, ma nessuno osa mettersi contro la società» spiega, vivace e segaligno, nella sede della sua impresa. «Quando costruirono l’impianto, ci avevano assicurato che, dopo 15 anni, l’avrebbero chiuso: sarebbe stato già vecchio. Ma il Pci, poi i ds e il Pd hanno preferito il lavoro all’inquinamento».  
Anche Richard Furfaro aveva preferito il pane. Morto a 34 anni per un carcinoma al polmone, dopo aver lavorato per la Tirreno Power: «I medici non si sono mai sbilanciati, ma una cosa l’hanno detta: si è ammalato per agenti esterni» dice Alessandra, la vedova. Anche la neoplasia al pancreas che, un anno fa, ha ucciso Antonio Risi, 62 anni, ha insinuato il sospetto nella figlia Laura, che vive a Imperia. Il padre ha lavorato nello stabilimento di Vado Ligure fino al 2009: «Mi raccontava che spegnevano gli impianti a Ferragosto e Natale. E lui doveva entrare nelle condotte che trasportano il carbone dal porto alla centrale. S’infilava in quegli enormi tubi, per ripulirli. Papà, è pericoloso, gli dicevo. E lui, sempre: “È il mio lavoro”». Antonio Risi s’è ammalato di cancro nell’ottobre 2012: al pancreas. È morto dopo due mesi. Senza un perché: «Non c’erano altri casi di tumore in famiglia. E mio padre non ha mai fumato una sigaretta. Ho letto che quel tipo di cancro può dipendere dalle polveri di carbone. Finché non capiremo non avremo pace».
Sono gli stessi dubbi che oggi divorano Gaetano Russo. Nella sua casa nel centro di Savona tira fuori la foto del padre, Giuseppe, un omone rotondo, dal sorriso aperto, scomparso lo scorso agosto dopo una malriuscita operazione alla trachea. La famiglia chiede l’autopsia e a Giuseppe trovano l’antracosi. È la malattia che ha falcidiato i minatori: polvere di carbone nei polmoni.  Russo ricorda: «Ha lavorato per 20 anni alla Esso di Vado Ligure, accanto alla Tirreno Power. Mio padre mi parlava del fumo della centrale. “A volte non riesco nemmeno a vedere intorno” si lamentava».
A percorrere la «Spoon River del carbone», oltre ai lavoratori, sarebbero stati anche molti abitanti della zona. Quiliano è l’altro paese che confina con l’impianto. La direttrice della farmacia comunale, Maria Ida Rebella, conferma che la metà dei suoi clienti ha un tumore. «Codice 048» è il segno distintivo marchiato sulle ricette. Lo stesso che ha imparato a conoscere Ivana Rezza, 60 anni, tecnico di laboratorio, una casa «a nemmeno 500 metri dalla centrale». Nel 2007 le hanno diagnosticato una «leucemia linfoplastica acuta». È sopravvissuta grazie a un trapianto.
Stella Ariu, 45 anni, è una sua vicina di casa. Poco più di un anno fa ha cominciato la chemioterapia a Savona. I capelli, ricci e neri, le sono appena ricresciuti. Dopo aver sentito della strage all’Ilva di Taranto, ha deciso di denunciare le morti di Vado Ligure e Quiliano: «Viviamo in un ambiente a rischio: gli oncologi me l’hanno detto spesso. Abbiamo il dovere di batterci per la nostra salute».
Anche Marco Fraia è nato e cresciuto a Quiliano, a due passi dalla centrale. Suo padre ha lavorato lì per trent’anni. A lui, nel 2008, ad appena 32 anni, hanno scoperto un linfoma di Hodgkin. «Quando l’ho detto al mio medico, mi ha confessato: «Purtroppo non sei l’unico, qui attorno». Sarebbero percentuali più che allarmanti: le statistiche parlano di 3 casi ogni 100 mila persone nei paesi occidentali. Mentre a Quiliano vivono appena 7 mila anime. «Un altro dottore» continua Fraia, seduto in un bar del centro di Quiliano «mi ha rivelato che l’asl già nel 2008 gli chiedeva di monitorare l’insorgenza di patologie come la mia».
Linfoma di Hodgkin: quando un anno fa le hanno diagnosticato la malattia, Ilaria Mastrorosa, 28 anni, ammette di aver guardato i medici spaurita. «Cos’è?». «Un tumore del sangue» le hanno risposto. Dopo un anno di chemioterapia, il morbo sembra scomparso: «Ho scoperto una realtà tragica. Sarà un caso, ma tutti i malati hanno avuto qualche parente che lavorava alla centrale». All’inizio delle cure, per sensibilizzare alla denuncia altri malati, ha pubblicato la sua foto durante un ciclo di chemioterapia. Senza un capello e gli occhi dolenti: «L’ultima seduta l’ho fatta la scorsa settimana, a 28 anni ero la più vecchia. Si ammalano persone giovanissime, ma la gente ha paura di parlare. Pensano ancora che qualche stipendio valga più delle nostre vite». (antonio.rossitto@mondadori.it)      
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Antonio Rossitto