Coldplay: perché "Ghost stories" è un disco-manifesto - La recensione
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Coldplay: perché "Ghost stories" è un disco-manifesto - La recensione

Il linguaggio universale della band più mainstream del mondo

La scena musicale contemporanea non si presta più a definizioni come la rock band più famosa del mndo. In un mercato ultra parcellizzato ci sono idoili di nicchia, star di settore per chi ama un determinato sound dalle caratteristiche ben definite e codificate.

Alcune band fanno però eccezione, perché sanno parlare un linguaggio trasversale. Una definizione vaga ma che in musica significa mixare pop, rock, elettronica ed atmosfere black. Il rischio è quello di produrre dischi schizofrenici, ma gli artisti realmente creativi sono capaci di tenere tutto questo insieme e di vendere milioni di album anche nell'era dello streaming legale.

Tra i pochi che hanno questa virtù ci sono sicuramente i Coldplay il cui ultimo album Ghost Stories è l'esemplificazione della capacità di creare note universali. 

Detto questo Ghost Stories è un disco mainstream di valore. Rispetto ai due predecessori, Viva la vida e Milo Xyloto, manca il tripudio gioioso d'archi. Volendo semplificare, il nuovo disco della band di Chris Martin è un album contemplativo. Lo si intuisce dall'iniziale Always in my head con le sue strofe che raccontano di notti insonni e di voci nell'oscurità. Non distante, in termini di sonorità, il ritornello contagioso del primo singolo, Magic

Azzeccate le percussioni che accompagnano l'atmosfera indie-pop di Ink, mentre Midnight si ricongiunge con stile alle intuizioni dei Radiohead di Kid A. A un primo ascolto, il pezzo più forte dell'album.

Ha il beat della dance che funzionaA sky full of stars, una delle tante facce del "Coldplay wall of sound". Chiude il cerchio O, splendida ballad che regala nuove emozioni ascolto dopo ascolto. Non c'è tanta musica in Ghost Stories (40 minuti), ma ogni nota è preziosa. Non è poco  e nemmeno scontato. 

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Gianni Poglio