Nicola Morra Movimento 5 Stelle
ANSA/GIUSEPPE LAMI
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Morra: "Così i 5 Stelle sono diventati borghesi"

E' l'esponente grillino che più si oppone a Di Maio. Una voce critica sempre più condivisa nel Movimento

L’insegnamento come missione. Il suo girovagare per città molto diverse tra loro. Un fratello perduto durante l’età dell’adolescenza.

Nicola Morra è l’uomo politico del momento, e non soltanto per la sua assai dinamica attività da presidente della Commissione Antimafia. A differenza di molti altri che tramano nell’ombra, Morra ha infatti deciso di rendere pubbliche le sue perplessità sulla nuova natura «istituzional-borghese» (parole sue) del movimento. E dopo aver atteso per settimane che a indirla fosse Luigi Di Maio, ha scelto di convocare lui stesso i parlamentari in un’assemblea a cui hanno partecipato una trentina tra deputati e senatori. Qualcuno ha parlato di «tentativo di golpe» ma il presidente pare sincero quando afferma che il suo atto «non ha nulla di sovversivo» e «vuole aprire una discussione sul nostro futuro».

Data l’ampia premessa, si potrebbe pensare che la conversazione con Morra sia tutta incentrata sui 5 Stelle. E invece no. Complici l’autunno e un pomeriggio di pioggia e pensieri, il discorso scivola immediatamente verso il passato. E svela aspetti di un uomo finora conosciuto soltanto per la sua attività istituzionale. 

Presidente, lei è nato a Genova ma vive in Calabria, dopo aver trascorso, nel mezzo, alcuni anni a Roma.

Sono un emigrante al contrario, dal Nord sono sceso sempre più a Sud. Sa, mi definisco un tipico bastardo dell’Italia anni Sessanta. A differenza di tanti che possono dire di avere radici, io non le ho.

Rimangono le radici dei suoi genitori.

La mia è una famiglia di emigranti, che subito dopo la Seconda guerra mondiale avevano dovuto abbandonare le loro zone di origine per trovare reddito e lavoro. I miei genitori si sono conosciuti a Roma, a fine anni Cinquanta. Mamma era di Catania, se n’è andata il 27 aprile, dopo un’agonia dovuta alla sindrome di Alzheimer. Un’esperienza durissima.

Si può immaginare che anche suo padre abbia sofferto molto.

Papà è nato a Monteleone di Puglia, mille abitanti in provincia di Foggia. Anche lui ora non sta bene e dopo la morte di mamma è tornato a vivere lì.

I suoi, dopo essersi sposati, andarono a Genova a lavorare. Lei nacque lì, in Liguria. Quando siete tornati a Roma?

Nel settembre del 1970. Da buoni meridionali ottennero la possibilità di avvicinarsi alle famiglie d’origine ancora di stanza a Roma.

Lei aveva sette anni. Come fu l’impatto con la capitale, positivo e negativo?

Le dico la verità, io mi sento cittadino del mondo. Sono contento di essere italiano come probabilmente mi sentirei contento di essere ghanese, polacco, brasiliano... Politicamente parlando, significa che sono un sovranista della reciprocità: non sopporto che altri decidano per noi ma non sopporto neanche che noi si decida ipocritamente per altri.

A proposito di politica, quando nasce la sua passione?

A casa, per tanti motivi, avevamo una forte sensibilità politica. La mia esplode al liceo Socrate, in via padre Reginaldo Giuliani. Ero nella sezione D. In quarta ginnasio sono stato eletto in consiglio di classe, in quinta in consiglio d’istituto e in secondo liceo classico in consiglio di distretto. Ero rappresentante di una lista di estrazione cattolica, ma per nulla legata a Comunione e liberazione, che in quegli anni cominciava a fare proseliti.

Come si chiamava?

Vuole ridere? Partecipazione democratica, per cui l’acronimo era Pd. Firmavo i tazebao «Nicola Morra, Pd».

La sua inclinazione legalista emerge già allora, al liceo?

Ma per altre ragioni. All’età di 16 anni ho perso un fratello. Per questo, nell’estate tra il terzo e il quarto anno delle superiori, ho deciso di studiare filosofia. Sono stato costretto, e dico fortunatamente, in maniera paradossale, ad affrontare questioni che si rinviano vita natural durante. Essendo capitato a lui, che era più piccolo di me di un anno, ho capito che certe domande te le dovevi porre, non le potevi rinviare, perché come se n’è andato lui, poteva capitare pure a me.

Come ha perso suo fratello?

È morto dopo 14 giorni di coma perché si è sentito male mentre nuotava in una piscina a Torvaianica. È andato giù, l’hanno tirato su con grande ritardo, e qualora fosse sopravvissuto sarebbe rimasto con danni cerebrali irreversibili. Una polmonite se l’è portato via.

Questo spiega perché tiene tanto ai disegni di legge sul fine vita.

Tra le altre cose, sono specializzato in bioetica. Ma da credente, perché io sono credente, ritengo che vada sempre ricordato ciò che viene ribadito dal celebrante durante la liturgia del battesimo. Il battezzato viene inserito nella comunità diventando dono, sacerdote e re. Re significa che deve essere capace di autodeterminarsi.

È in aspettativa ma i suoi colleghi dicono che lei è un insegnante modello.

Per me è una missione.

Ha sempre pensato di fare il professore?

Da neo laureato con 110, venni chiamato dalla Procter & Gamble, perché voleva che formassi le nuove leve della multinazionale. Provocando lo sgomento di mio padre, rifiutai.

E perché mai?

Alla manager incaricata della selezione dissi che pur non essendo marxista-leninista, non credevo che aziende così, soprattutto quelle statunitensi, fossero la soluzione ai tanti problemi del mondo.  E quando lei insistette, replicai che avrei tanto desiderato fare l’insegnante.

Le è rimasta questa idea negativa delle multinazionali?

Sì. Al profitto come unico canone antepongo Adriano Olivetti, che parlava tanto di responsabilità sociale di impresa.

Quando è arrivato in Calabria?

Nel settembre del 1988. Ricevetti un’offerta di lavoro dal gestore di una scuola privata. Questo signore mi chiamò a giugno per dirmi che sarei andato a lavorare per un suo istituto, che si trovava in via Cavour, a Roma. Poi a settembre mi disse che invece di Roma ci sarebbe stata Castrovillari. Accettai, non trovavo nulla di ignominioso nell’allontanarmi da Roma e nello scendere in Calabria. Ma nel dicembre del 1988 mi ero già licenziato.

Il motivo?

Il gestore era venuto meno agli accordi. Gli ho fatto causa di lavoro. Si è conclusa nel 2006 perché ha deciso di arrivare in Cassazione. Ma ha perso anche là.

Qual era l’oggetto del contendere? Non la voleva pagare?

Esatto. Allora c’era il mito del punteggio.

Si lavorava gratis nel privato per ottenere punti utili all’assunzione nel pubblico.

Fu quello che mi disse lui. E allora io gli risposi: quando vado a fare la spesa pago con i punti della scuola? La cosa che mi colpì è che, a fronte di un centinaio di colleghi, soltanto io e mia moglie promuovemmo il contenzioso. Tutti accettavano di lavorare, sia a settembre sia a giugno, senza essere pagati.

Però in Calabria c’è rimasto.

Avevo conosciuto mia moglie. Quando si è ragionato sul nostro futuro di famiglia, abbiamo deciso che si poteva rimanere lì.

E ha cominciato a far politica con i meetup grillini.

Prima di Grillo non ho mai votato perché non ho mai creduto alla logica del male minore. Ho ritenuto, e credo a ragione, che la partitocrazia denunciata da don Luigi Sturzo abbia rovinato lo sviluppo della nostra Repubblica. A me piacerebbe tornare a una politica, come dice Beppe, in cui al centro ci sia il valore, l’idea e non l’interesse, il male maggiore. L’interesse trasferisce la politica in ambito utilitaristico e individualistico. Invece il movimento era e dovrebbe essere «leaderless», privo di un capo.

Forse è troppo tardi. Avete scoperto l’ambizione personale.

Voglio pensare che il protagonismo di alcuni sia un mettersi a disposizione del movimento facendo credere di essere gli uomini della provvidenza.

Parla di Luigi Di Maio, che per Statuto è il capo del movimento, anche il suo.

Fino a quando le regole lo consentiranno, sarà così. Ma il suo mandato scadrà. La mia speranza è che nel frattempo si capisca che questo sistema non funziona.

Perché?

Luigi stesso lo ha definito straordinariamente verticistico. E questo sistema ha prodotto meno vantaggi di quanto si pensasse creando anzi  distanza tra gli attivisti e gli eletti.

I militanti vi considerano eletti in tutti i sensi…

E invece dovevamo continuare a essere attivisti e cittadini, con un piede dentro il Palazzo e l’altro ben fuori. Gli attivisti si sentono traditi non dai singoli portavoce, attenzione, ma dalla trasformazione del movimento, diventato sempre più istituzional-borghese. Io non ho nulla contro la borghesia quando è sana.

Voi siete ancora sani?

Voglio credere di sì.  n

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Carlo Puca