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Migranti, accoglienza a delinquere

Il reportage esclusivo di Mario Giordano che spiega, dati alla mano, come "gli immigrati rendono più della droga"

Accoglienza a delinquere. In questi anni abbiamo raccontato spesso di truffe, inganni, guadagni illeciti, personaggi improbabili che si sono riempiti le tasche alle spalle dei migranti e ancor più alle spalle degli italiani, costretti a pagare e a sopportare l’invasione per l’arricchimento altrui. Ma abbiamo sempre pensato fossero episodi occasionali, compagni che sbagliano o che sbagliavano, servizi caritatevoli deviati. Invece, man mano che le inchieste vanno avanti e svelano nuovi particolari, si scopre che quello nascosto dietro le parole della solidarietà era un vero e proprio sistema di malaffare, organizzato e compiuto, che coinvolgeva pezzi di Stato, pezzi della Chiesa, finte e vere cooperative, immobiliaristi, ras locali, sottopanza della politica, etc. Quasi una Mafia nazionale, insomma, che ha replicato su tutto la Penisola i meccanismi oliati a Roma con Mafia capitale. In base all’indimenticato principio per cui, come è noto, «gli immigrati rendono più della droga».

Sì, gli immigrati hanno reso davvero più della droga. Non era solo una boutade. E non era solo in riva al Tevere. Vale la pena ricordarlo oggi che si indica il tentativo di cambiare il modello dell’accoglienza come un attentato alla Costituzione, oltre che una prova di evidente di razzismo e malvagità. Vale la pena ricordarlo ora che si paventano rischi tremendi nello smantellare quel modello che pure è stato sempre inefficiente e molte volte financo malavitoso. Nelle Procure d’Italia, infatti, si stanno certificando, un passo dopo l’altro, i veri danni del sistema d’accoglienza in vigore fino a ieri: un sistema che, ancor prima che fuori dalla Costituzione, è stato troppo spesso fuori dalla legge.

L’ultimo caso arriva da Gorizia. Ci sono 42 persone indagate per il centro di accoglienza di Gradisca d’Isonzo. Fra di loro anche due prefetti, due viceprefetti, alcuni funzionari dello Stato, oltre ai vertici di una cooperativa di sedicente solidarietà. Ma soprattutto dietro c’è una storia assurda di soldi e appalti che per la Procura definisce, per l’appunto, «associazione a delinquere».

Tutto comincia con una cooperativa di Trapani, la Connecting people, che nel 2011 vince una gara in Friuli Venezia-Giulia. Una gara che, a giudicare dagli atti, sembra la più pazza del mondo: buste che si chiudono e si riaprono, coop che compaiono e scompaiono, dichiarazioni palesemente fasulle. Pensate che la coop di Trapani, alla fine, viene giudicata vincitrice anche se di fatto non risulta aver mai partecipato al bando. Dicono i funzionari che la sua domanda è stata «smarrita» o «altre ipotesi di diversa natura». Proprio così: vince la domanda smarrita. O ipotesi di altra natura.

La Connecting people, per altro, a quel tempo, è già piuttosto discussa. Si presenta come cooperativa no profit («ente privo della necessità di fare utili») ma in realtà viene gestita «come una società commerciale» al punto da distribuire «un premio incentivante del 10 per cento come ripartizione dell’utile». E nel suo curriculum ha alcune gestioni di centri non propriamente brillanti, come il Cie di Bari, definito da Medici per i diritti umani una «struttura al di sotto degli standard minimi di dignità». E qui sorgono i primi dubbi: com’è possibile che vinca proprio lei? Una coop di Trapani? A Gradisca d’Isonzo? Pur avendo un passato così contestato? Al di sotto degli standard minimi di dignità? Pur non avendo portato tutti i documenti in tempo? E come fa a emergere in mezzo a un percorso così accidentato? O, forse, emerge proprio per questo?

I sospetti, però, non finiscono qui: la Procura, che nei giorni scorsi ha inviato ai 42 indagati l’avviso di chiusura delle indagini, ritiene infatti che la cooperativa abbia fatto una cresta milionaria sui servizi, sia sottraendo acqua e servizi agli immigrati, sia evitando di costruire le fognature e scaricando tutto nell’Isonzo («con seria preoccupazione in ambito igienico sanitario»), sia soprattutto fingendo che fossero presenti nel centro più ospiti di quelli che c’erano davvero. Così facendo la Connecting people «ha ricavato un profitto di rilevante entità quantificabile in 27.407.244,28 euro, cagionando nel contempo un danno di particolare gravità alla Prefettura». Cioè allo Stato. Cioè ai contribuenti. Cioè a noi.

Ma il fatto più bizzarro deve ancora arrivare. Nel luglio 2015, infatti, la Prefettura di Gorizia aveva finalmente deciso di chiudere il contratto con la Connecting people di Trapani, che per altro nel frattempo era pure andata (non si sa come) in crisi finanziaria. E per chiudere il contratto che fece? Versò 4 milioni nella cassa della medesima coop, senza «tener conto delle precedenti frodi in pubbliche forniture e delle sovrafatturazioni di cui gli indagati avevano contezza».

La situazione è davvero assurda perché nel 2015 l’inchiesta è già aperta, le Fiamme gialle hanno fatto perquisizioni, i dubbi sono emersi: com’è possibile che da una parte lo Stato, con la Procura, accusi la Connecting people di associazione a delinquere per la gestione del campo di Gradisca e dall’altra il medesimo Stato, con la Prefettura, le riconosce 4 milioni di euro di «bonus» per la gestione di quel campo? Dov’è l’errore?

«Lo Stato ha scaricato tutto su di noi», si è lamentato nei giorni scorsi uno dei due prefetti indagati, Vittorio Zappalorto, in un’intervista al Corriere Veneto. E molti, da Massimo Cacciari al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro sono scesi in campo per difenderlo. Per carità: bisogna essere garantisti fino alla fine. Ma è lo stesso prefetto Zappalorto ad ammettere papale papale: «Il sistema di accoglienza, così come concepito nel 2014, era fallimentare in sé». Esatto: sistema fallimentare in sé. Praticamente Profugopoli conclamata.

Per altro non va dimenticato che l’altro prefetto indagato nella medesima inchiesta, Maria Augusta Marrosu, era già salita agli onori delle cronache quando guidava la Prefettura di Treviso: il ministro dell’Interno fu costretto a rimuoverla dopo che aveva cercato di piazzare 101 immigrati in un condominio di Quinto di Treviso, di proprietà di una famiglia siciliana, i Marinese di Termini Imerese. L’operazione, effettuata attraverso una società di Venezia e una cooperativa di Grosseto, scatenò la rivolta popolare che si concluse, appunto, con il siluramento del Prefetto.

Ora, il punto è proprio questo: perché 101 immigrati vengono piazzati in palazzi semi invenduti a Quinto di Treviso di proprietà di una famiglia siciliana, nonostante i locali siano palesemente inadatti allo scopo? Forse per le stesse ragioni per cui una cooperativa trapanese, guidata da un quarantenne di Castelvetrano che accoglie nel suo paese l’allora ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge e organizza quadrangolari di calcetto con i notabili della zona, vince appalti sospetti a Gradisca d’Isonzo? È solo l’emergenza che porta a fare errori? O l’emergenza è stato il passpartout attraverso il quale si è affermata l’accoglienza a delinquere? Nel 2014 gli immigrati gestiti con i Cas, che sono per l’appunto i centri dell’emergenza, erano il 50 per cento del totale. Sembrava già tanto. Nel 2017 si è arrivati al 90 per cento. Davvero non si poteva far altro? O, come sempre accade in Italia, l’emergenza è il trucco per aggirare le regole e creare quello che la Procura di Gorizia definisce un «disegno criminoso»?

Di sicuro troppe persone non hanno visto. O hanno fatto finta di non vedere. Quello che succedeva al centro Misericordie di Isola Capo Rizzuto, per esempio, era sotto gli occhi di tutti. I responsabili (don Edoardo Scordio e il suo braccio destro Leonardo Sacco) sono stati arrestati nel maggio 2017 con l’accusa di aver usato l’accoglienza per far arricchire le cosche della ndrangheta, in particolare quelle del clan Arena.

Agli ospiti del centro, per risparmiare, avrebbero fatto mangiare addirittura «cibo per maiali». In questo modo avevano messo su un piccolo impero: gestivano bar, polisportive, persino un acquario, erano entrati nel capitale di una società editoriale e della società Aeroporto Sant’Anna Spa. Un fatturato di 10 milioni l’anno, sotto la tonaca. Sulla pelle dei profughi. Possibile che nessuno si fosse mai accorto di nulla?

Eppure c’erano state le inchieste giornalistiche. Gli articoli. I libri. I servizi in televisione. C’erano gli attentati. Auto che bruciavano. Ritorsioni, incendi, minacce alle ditte fornitrici. Denunce su denunce. C’erano le audizioni alla Commissione antimafia, i sospetti su quel prete che celebrava i funerali del boss. E allora perché, prima che si muovesse la magistratura, nessuno è intervenuto? Come hanno potuto costoro continuare a vincere appalti su appalti?

Quando l’allora capo del dipartimento immigrazione del Viminale, il prefetto Mario Morcone, fu sentito in Commissione antimafia sulla vicenda, se la cavò con una battuta sui magistrati: «Capo Rizzuto? Sono anni che mandano la polizia giudiziaria a fare fotocopie». Minimizzava, ironizzava. E intanto le Misericordie continuavano a incassare milioni di euro.

Com’è possibile che nessuno abbia visto? Per capirlo basta tornare a uno dei casi più noti del Business profughi, quello di Edeco, ex Ecofficina, la coop legata all’ex re dei rifiuti Simone Borile e alla moglie Sara Felpati. Anche qui si ipotizza l’associazione a delinquere. Ci sono malversazioni, maltrattamenti, truffe. C’è stata la gestione folle di un campo, quello di Conetta, in provincia di Venezia, che finalmente è stato chiuso nei giorni scorsi, ma che era arrivato ad avere 1.600 ospiti, un’esagerazione in assoluto e tanto più in un paesino di 196 abitanti. Ci sono state rivolte, tensioni, proteste. Ci sono state pure due persone morte. Ma soprattutto ci sono alcuni funzionari dello Stato, fra cui l’ex prefetto vicario di Padova, Pasquale Aversa, accusati di essere collusi con questo sistema: avrebbero tagliato i bandi su misura per Ecofficina e poi avrebbero avvisato quando arrivavano le ispezioni. Era una cosa talmente abituale che nel luglio 2016, quando la Usl si permette di fare una visita al centro di accoglienza a sorpresa, Sara Felpati s’indigna: «Com’è che nessuno mi ha avvisato?».

Già: perché nessuno l’ha avvisata? Ecco la pagina di Profugopoli che va riscritta: non erano episodi occasionali, piccoli profittatori di una situazione emergenziale. No, il sospetto che emerge dalle carte delle Procure, è che si fosse creato un vero e proprio sistema, in cui vincevano sempre gli stessi, anche se erano indagati, anche se erano condannati. Per esempio quando, dopo infinite polemiche, la discussa Edeco nell’aprile 2017, lascia la gestione dell’altro grande centro che aveva insieme a Conetta, quello di Bagnoli di sopra (Padova), chi subentra? La cooperativa Badia grande di Trapani (e ridagli con Trapani), già nota per aver gestito in Sicilia il centro di Salinagrande, definito «un lager» dalla delegazione Ue e chiuso con somma vergogna nel 2015. Una coop non certo immacolata: il fondatore, don Sergio Librizzi, all’epoca era già stato condannato a nove anni di carcere per aver gestito una piccola holding del malaffare con la complicità di politici, logge massoniche e presbiteri importanti. Oltre far soldi con i migranti, per altro, usava questi ultimi anche per soddisfare i suoi desideri sessuali.

Possibile che per gestire un centro a Padova si dovesse andare a scegliere una coop di Trapani? E dovendo andare a Trapani non si poteva trovare un’associazione senza ombre nel passato? È impressionante come ritornino sempre gli stessi nomi. E gli stessi sistemi. Sempre le cifre gonfiate sulle presenze. Sempre i subappalti sospetti per le mense. Sempre i servizi carenti per fare più soldi. E poi, come se tutto questo non bastasse, ecco gli affari immobiliari, un’altra costante della Business profughi Spa. Un altro caposaldo dell’accoglienza a delinquere.

Gli affari immobiliari li abbiamo già trovati e citati a Quinto di Treviso. Sono saltati fuori anche in molte altre parti d’Italia. A Busto Arsizio, per esempio, dove c’è un’inchiesta aperta sull’immobiliarista Roberto Garavello, che dopo aver fatto i soldi con i profughi se la sta spassando in Thailandia, in una delle 10 isole più belle del mondo. A Eraclea, sempre nella zona di Venezia, dove l’allora responsabile della coop Solaris, S. F., metteva i profughi in un residence e poi, quando quello scendeva di valore, si offriva di ricomprarlo con una società con sede nell’Hertfordshire (e facente capo ovviamente a lui). E chissà quante altre volte sarà successo, chissà quanti ne scopriremo ancora…

Saranno tutti innocenti, per carità. Si dimostreranno tutti estranei ai fatti. Ma intanto non possiamo fare a meno di guardare con malinconia il moltiplicarsi di inchieste in tutta Italia che sembrano confermare quello che fino a ieri era soltanto un sospetto.

Ci chiedevamo: perché a Ferrara vince sempre la cooperativa Camelot? Perché i profughi sono tutti suoi, fino ad arrivare a 14 milioni di fatturato nel 2017, nonostante le denunce dell’Autorità anti corruzione sulla gestione «opaca» dei contratti? Ora su Camelot c’è un’inchiesta in corso, controlli della Guardia di finanza, circa 20 milioni di euro in ballo. Ci chiedevamo: perché a Benevento 770 immigrati finiscono, nonostante le strutture inadeguate, al consorzio Maleventum che fa capo a un ex consigliere comunale Udeur, noto per mostrarsi sui social con la sua Ferrari e mentre si abboffa di gnocchi alla zucca? A maggio quest’ultimo, che si chiama Paolo di Donato, andrà sotto processo. E avanti così: poco a poco, pezzo a pezzo, sta emergendo una trama di malaffare che non era difficile vedere ma che nessuno, forse, ha voluto fermare.

Fra il 2015 e il 2017 soltanto la Guardia di finanza ha denunciato 165 persone per reati connessi alla gestione dei profughi, in pratica più di uno alla settimana. Viene da chiedersi dove fossero, in quello stesso periodo, gli altri controllori. Dove erano i prefetti, i viceprefetti, i funzionari del ministero. Dov’erano i deputati della Commissione d’inchiesta parlamentare sull’accoglienza, che in teoria avrebbe avuto poteri per intervenire ovunque e invece non ha combinato nulla, concludendo i lavori con una sterile relazione e niente più. Viene da chiedersi perché nessuno è intervenuto. Perché nessuno ha bloccato le scempio. Perché quelli che adesso gridano scandalizzati davanti all’inevitabile tentativo di cambiare, hanno sempre girato la testa da un’altra parte. E viene il drammatico sospetto che forse tutto questo è successo per un unico motivo: perché c’erano troppe persone che da quel disastro ci guadagnavano davvero. Come in Mafia capitale. Proprio uguale. Ma in tutt’Italia, ahinoi.

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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