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(Enzo Carra in manette e catene)
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Tra ceppi e manette un mare di ipocrisia

La Rubrica - Lessico Familiare

Non si fa che parlare di ceppi e manette.

Quelli che stringevano le caviglie e i polsi di Ilaria Salis, una ragazza italiana tradotta davanti al Giudice penale ungherese per un’accusa di lesioni aggravate a militanti con idee opposte alle sue, in concorso con altri anarchici di una fantomatica organizzazione (Hammerband, la banda del martello) che, evidentemente ispirandosi al film di Tarantino, Bastardi senza gloria, promuoveva spedizioni punitive contro neonazisti e fascisti di tutta Europa.

Insomma, cercavano un confronto che non si limitava ad un’accesa dialettica.

L’immagine ha scioccato l’opinione pubblica italiana, dimentica del fatto che, per decenni, si è nutrita impassibile di immagini di detenuti nelle medesime condizioni della Salis, gustandosi avidamente trasmissioni come “Un giorno in Pretura” o guardando i TG della sera, dove coppie di Carabinieri in divisa scortavano gli imputati con manette vincolate a grosse catene.

Andate a rivedere le fotografie che ritraggono l’ex portavoce della DC, Enzo Carra, vittima sacrificale di Mani Pulite, esposto al pubblico ludibrio e poi assolto e riabilitato.

La sua storia la raccontò così: «Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al muro delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido».

Allora l’Italia non si indignò, non elevò proteste al Presidente della Repubblica, ma si abbeverò alla corte di quel Pool giustizialista che aveva eletto suo ‘eroe’ per ripulire il Paese dalla corruzione.

Erano gli anni ’90, non il 1800 e tutto pareva normale. Perché?

Perché i tempi cambiano, la coscienza di un popolo si evolve e così riconosce diritti e dignità anche ai detenuti.

Giusto, sacrosanto, ma c’è qualcosa di profondamente ipocrito che stride con questo fervore mediatico e istituzionale, dove il caso Ilaria Salis domina la cronaca e i più alti esponenti di governo e opposizione si schierano apertamente con la giovane insegnante milanese.

Come si può pretendere che tutti gli Stati maturino all’unisono la medesima coscienza?

C’è un che di prepotenza infantilistica nell’esigere che i nostri cambiamenti nella coscienza civile vengano condivisi anche da altri Stati sovrani, come l’Ungheria.

E’ come se, fino a ieri, avessimo mangiato carne e pesce e poi, convertiti al veganesimo, andassimo per ristoranti a sputare nel piatto degli avventori che assaporano una tartare di salmone.

E poi c’è dell’altro: Ilaria Salis è una giovane e bella ragazza, magra, indifesa, con gli occhi chiari, la faccia pulita, l’immagine dell’innocenza.

Mi chiedo se la stessa indulgenza l’avreste provata con Igor il Russo o con Breivik o con un militante neonazista, rasato, tatuato e nerboruto, che avesse assaltato e duramente malmenato un corteo di pacifisti.

L’iconografia conta eccome nella formazione dei sentimenti.

Certamente Ilaria Salis non è un’assassina, né una terrorista e non meritava quel trattamento, se non altro perché uno scricciolo di ragazza cosa avrebbe mai potuto fare in quell’aula magiara presidiata da energumeni con il passamontagna in volto?

Oggi scopriamo che l’Ungheria è cattiva, che il suo sistema carcerario è inumano e invochiamo l’estradizione della Salis.

Però siamo gli stessi che hanno gridato allo scandalo quando i piloti del Cermis vennero sottratti ai nostri magistrati per essere giudicati in America: all’epoca la sete di vendetta li avrebbe voluti in ceppi e manette davanti alle nostre Corti e non uno si sarebbe alzato per difenderli.

O siamo quelli che non hanno voluto sentir ragioni alle richieste dei due americani, Finnegan Elder Lee e Gabriel Natale Hjorth, condannati per l'uccisione del carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma nel 2005, di scontare la pena nel proprio paese. Giammai.

Insomma, quando c’è un nostro connazionale coinvolto ci scopriamo pannelliani e garantisti, mentre se il reato lo commette uno straniero, siamo più spietati di Savonarola.

Ci siamo persino dimenticati delle plurime sentenze di condanna della Corte Europea all’Italia, per la condizione dei nostri detenuti, stipati in celle piccole e sovraffollate non certo migliori di quelle ungheresi.

Si dovrebbe quindi riflettere su questa isteria collettiva legata al caso Salis, nel rispetto di una persona umiliata, sicuramente meritevole di un dignitoso trattamento, che però ha scelto di recarsi in un paese straniero e ne ha accettato le leggi e i rischi.

Dovremmo ragionare sul fato che ogni paese è sovrano e che la sua magistratura è autonoma e indipendente, come giusto che sia.

Imparerai a tue spese che, nel lungo tragitto della vita, incontrerai tante maschere e pochi volti”, ha scritto Luigi Pirandello: e allora, ancorché siamo a ridosso di Carnevale, proviamo a sfilarci le maschere e guardare ai fatti con più obiettività.

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Daniela Missaglia

Avvocato matrimonialista e cassazionista, è specializzata in Diritto di famiglia e in Diritto della persona. Grazie alla sua pluridecennale esperienza è spesso ospite in trasmissioni televisive sulle reti Rai e Mediaset. Per i suoi pareri legali interviene anche su giornali e network radiofonici. Info: https://www.missagliadevellis.com/daniela-missaglia

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