Luglio 1970: cinquant'anni fa la rivolta di Reggio Calabria (storia e foto)
Un momento degli scontri a Reggio Calabria nel luglio 1970 (Mondadori via Getty Images)
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Luglio 1970: cinquant'anni fa la rivolta di Reggio Calabria (storia e foto)

Innescata dalla mancata nomina della città a capoluogo regionale, fu sostenuta dalla destra di Ciccio Franco al grido di "boia chi molla!". Durò otto mesi e costò sei morti

I nodi dell'antica divisione amministrativa della Calabria vennero al pettine cinquant'anni fa, nel luglio del 1970, in occasione della legge sull'istituzione delle Regioni dando il via alla più lunga rivolta locale dai tempi della seconda guerra mondiale. Le proteste e le violenze durarono per ben otto mesi e costarono sei morti e numerosi feriti.
La storia amministrativa della regione era infatti molto particolare, essendo caratterizzata da una secolare bipartizione, tanto che nei documenti antichi la zona era indicata come "Le Calabrie", divise in due realtà amministrative indipendenti al Nord (Calabria Citeriore o Latina) con capoluogo Cosenza e al Sud (Calabria Ulteriore o Greca) con capoluogo Reggio e Catanzaro, che si avvicendarono alla guida della provincia sotto il Regno di Napoli e delle Due Sicilie.


Le "Calabrie" e la storica divisione amministrativa


L'Unità d'Italia non aveva sostanzialmente cambiato la situazione a livello locale, mantenendo una divisione amministrativa addirittura tripartita tra le città di Reggio, Catanzaro e Cosenza. La questione rimarrà sospesa anche nel secondo dopoguerra a causa del ventennale ritardo nell'applicazione dell'articolo 22 della Costituzione che prevedeva l'istituzione delle Regioni a causa di forti attriti politici. La legge n. 281 fu varata soltanto il 16 maggio del 1970.
Le tensioni tra le città della Calabria erano tuttavia cominciate tempo addietro a causa dell'importanza dell'assegnazione dello status di capoluogo regionale, che avrebbe significato garanzia di sviluppo e di occupazione in una regione devastata dall'arretratezza del tessuto economico, dal crimine organizzato, dalla lunga piaga dell'emigrazione e dalle mancate riforme in campo agrario.
La città di Reggio, che era stata la prediletta durante il ventennio ed aveva conosciuto in quegli anni un notevole sviluppo urbano (nel 1970 contava 180mila abitanti) oltre ad essere la più antica della regione, si vide scavalcata da Catanzaro a causa di un accordo interno tra i rappresentanti della Democrazia Cristiana e del Governo durante un incontro informale. A Catanzaro sarebbe stato assegnato lo status di capoluogo, a Cosenza la sede dell'Università mentre a Reggio sarebbe rimasta la promessa di un futuro sviluppo industriale tutt'altro che definito. La beffa per Reggio fu ulteriormente aggravata dal fatto che la Dc aveva assicurato ai cittadini il proprio appoggio alla candidatura, smentito dal voltafaccia dell'ultima ora.

La destra cavalca la battaglia per Reggio capoluogo


Bastarono pochi giorni all'inizio del luglio 1970 per fare esplodere la protesta, soprattutto in seguito alla notizia che il 13 dello stesso mese si sarebbe svolta a Catanzaro la prima seduta del Consiglio regionale della Calabria, mentre il Governo italiano viveva una crisi che porterà proprio in quei giorni alla caduta dell'esecutivo guidato da Mariano Rumor. Le prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto nelle ore successive si videro a poca distanza da Reggio il 12 di luglio, quando Amintore Fanfani fu duramente contestato in una terra che fu feudo della Dc, mentre presenziava all'assegnazione di un premio a Villa San Giovanni. In città il primo corteo è chiamato dal sindaco democristiano Piero Battaglia in occasione del comizio da lui organizzato per informare i cittadini riguardo alla gravità della decisione governativa e rivendicare le istanze di Reggio invitando i rappresentanti della politica cittadina a non partecipare alla prima seduta del Consiglio a Catanzaro. La manifestazione si concluderà senza particolari tensioni, ma già sulla città si addensavano le nubi di una tempesta sempre più vicina. Era il 5 luglio 1970.
Le nubi della rivolta si scaricarono su Reggio appena qualche giorno più tardi, in un clima politico nazionale già fortemente segnato dagli effetti della strategia della tensione e da mesi di proteste e scioperi nelle fabbriche di tutto il paese creando una miscela esplosiva.
Fino ai primi giorni del mese, infatti, le rivendicazioni di Reggio furono condivise in modo trasversale tra i partiti rappresentati in città e raccolte soprattutto dalla voce del primo cittadino. Il cambio di marcia avvenne in seguito alla costituzione del "Comitato d'Azione per Reggio Capoluogo", un comitato civico di aggregazione della protesta che ebbe origine nei popolare quartiere di Sbarre e capitanato dal segretario del sindacato ferrovieri della Cisnal Francesco Franco detto "Ciccio" e da un altro caporione già consigliere del Movimento Sociale Italiano della città, Fortunato Aloi.


Le molotov, le vittime, la strage di Gioia Tauro


Nei giorni a cavallo della prima seduta del Consiglio a Catanzaro il Comitato di Agitazione girò la città reclutando i manifestanti al suono dei megafoni montati sulle loro utilitarie, mentre il Pci e gli altri rappresentanti della sinistra si ritiravano dalla gestione della lotta per la Reggio "tradita" rifiutandosi in ultima istanza di partecipare ad una lotta di "campanile" lasciando così la folla inferocita nelle mani del neonato Comitato. Il 14 luglio 1970 viene occupata la stazione ferroviaria di Reggio Calabria Centrale e per tutta la giornata i manifestanti si producono in scontri durissimi con la Polizia, senza risparmiare le sedi dei partiti di sinistra e dei sindacati. Neppure la notte placa gli animi e per le vie di Reggio prosegue la guerriglia urbana, con la Prefettura attaccata a colpi di molotov e con le barricate costruite con carcasse di auto date alle fiamme e materiali rubati dai cantieri. La lotta spontanea di popolo fu così facilmente capeggiata dal "Comitato d'Azione per Reggio Capoluogo", data l'assenza dei partiti di sinistra ma anche di buona parte della Dc rimasta imbrigliata nelle lotte di potere e ritenuta responsabile di un tradimento nei confronti delle rivendicazioni popolari della città sullo Stretto. Il secondo giorno di battaglia, i "moti di Reggio" reclamavano la prima vittima. Si trattava di un ferroviere simpatizzante della Cgil di quarantasei anni, Bruno Labate, trovato agonizzante dalla Celere all'angolo di via Logoteta, una strada del centro della città battuta in giornata da scontri violentissimi. La sua morte, tutt'ora senza un colpevole, esacerbò ulteriormente gli animi mentre in città si rilevava la presenza del famigerato Terzo Reparto della Celere giunto da Padova per reprimere la rivolta con la forza. La battaglia prosegue per le due giornate seguenti con più di cento feriti e altrettanti arresti, con l'estensione del blocco ferroviario anche agli imbarchi per la Sicilia.
Mentre per le vie infuria la battaglia a colpi di molotov, fionde, cariche e lacrimogeni, nel pomeriggio del 22 luglio il treno Palermo-Torino noto come il "Treno del Sole" (pieno di pellegrini in viaggio per Lourdes) si avvicinava alla stazione di Gioia Tauro ad una velocità superiore ai 100 km/h. Giunto a poca distanza dalla fermata, di colpo l'aria fu squassata da un boato seguito da una brusca frenata d'emergenza. Il convoglio si spezzava in tre tronconi e nelle carrozze centrali ribaltate sulla massicciata restavano sei morti e sessantasei feriti. L'associazione della sciagura con la situazione della vicina città di Reggio Calabria (diversi erano stati in quei giorni gli attentati dinamitardi alle infrastrutture della zona) fece immaginare a molti la presunta connessione dei moti con le trame eversive che come un'ombra aleggiavano sul Paese da alcuni mesi. Tuttavia gli inquirenti orienteranno le proprie indagini in direzione opposta, arrivando ad accusare alcuni addetti per presunte omissioni nella manutenzione. La tragedia che si consumò nei giorni della rivolta per il capoluogo rimarrà impunita, nonostante le dichiarazioni di alcuni pentiti della 'ndrangheta rilasciate alla riapertura del caso nel 1993 tra cui Giacomo Lauro che indicherà chiaramente l'infiltrazione della malavita organizzata e di elementi della estrema destra eversiva vicini al principe Junio Valerio Borghese . La strage di Gioia Tauro ebbe sì dei colpevoli, secondo la sentenza emessa nel 2001. Si trattava di Vito Silverini (vicino ad Avanguardia Nazionale), Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella, ma quando arrivò la condanna erano tutti ormai deceduti.


Boia chi molla!


La strage del "Treno del Sole", che significò una momentanea tregua in occasione dei soccorsi tra le forze dell'ordine e i membri del Comitato, non generò affatto la fine delle ostilità. Il 30 luglio si tenne il famoso comizio di Ciccio Franco, Fortunato Aloi e dell'industriale del caffè Demetrio Mauro (dichiaratosi apartitico) i quali, al grido della parola d'ordine "Boia chi molla!" parlarono di fronte a migliaia di reggini che iniziarono anche a contestare apertamente la linea considerata troppo morbida del sindaco Battaglia, mentre gli agitatori giunti dai rioni popolari tenevano sotto assedio le vie della città bloccate dalle barricate. Passano due settimane e, nei primi giorni del nuovo esecutivo guidato da Emilio Colombo, cade la seconda vittima dei moti. Accadeva al termine di una giornata di durissimi scontri presso il deposito ferroviario del rione Sbarre che registrò feriti da ambo le parti. Verso le ore 20 del 17 settembre 1970 nei pressi del ponte sul fiume Calopinace, mentre dalle onde di Radio Reggio Libera si susseguivano gli appelli alla rivolta, un gruppo di manifestanti del Comitato ingaggiava uno scontro a fuoco con la Polizia. Cadeva colpito dai proiettili l'autista dell'azienda municipalizzata Angelo Campanella, seguito poco più tardi dalla morte per collasso cardiaco del vice-brigadiere Vincenzo Curigliano. Reggio piombava nel caos, mentre nessuna soluzione politica pareva affacciarsi all'orizzonte a due mesi dall'inizio dei moti.
Ciccio Franco veniva arrestato con l'accusa di istigazione a delinquere assieme all'ex partigiano Alfredo Perna per giorni a fianco del capopopolo sulle barricate, mentre i blindati della Polizia facevano irruzione nei quartieri di Santa Caterina e Sbarre rimuovendo le barricate. Il 26 settembre un altra sciagura contribuirà ad allungare un ombra inquietante sui mesi della rivolta. Lungo l'Autostrada del Sole all'altezza di Ferentino (una sessantina di chilometri da Roma) una Mini Minor con a bordo cinque giovani anarchici di Reggio Calabria (noto come il gruppo degli anarchici della "baracca") si schiantava contro un autotreno che procedeva molto lentamente nella stessa direzione, forse a luci spente. Gli inquirenti ipotizzarono inizialmente un possibile legame con la strage di Piazza Fontana in quanto una delle vittime, la diciottenne tedesca Annelise Borth, era stata inizialmente fermata e interrogata nell'ambito della pista che portò a Pietro Valpreda. Negli anni, ed ancora una volta grazie alle parole del pentito Giacomo Lauro, emergeranno particolari inquietanti sulla morte dei cinque giovani: Il camion coinvolto apparteneva infatti ad una società facente capo a Junio Valerio Borghese, mentre dalle deposizioni dei collaboratori di giustizia emerse la possibile intromissione di elementi della 'ndrangheta e l'ipotesi che i giovani stessero portando a Roma le prove che avrebbero dimostrato la natura terroristica dell'incidente del treno di Gioia Tauro. Questi documenti non saranno ritrovati all'interno dell'auto sulla quale i cinque trovarono la morte.
I disordini continuarono a sconvolgere la città della Stretto ancora per mesi, fino alla decisione dell'intervento dell'Esercito con i carri armati inviati per rompere l'arroccamento dei fautori della protesta. Il 12 gennaio 1971 l'agente del Terzo Reparto Celere Antonio Bellotti veniva colpito da una sassaiola sul treno che avrebbe dovuto riportarlo a Padova dopo tre mesi di servizio a Reggio: spirerà dopo alcuni giorni di coma.
Una soluzione politica per la questione calabrese fu avanzata dal Governo Colombo soltanto nel febbraio del 1971. Il cosiddetto "pacchetto" di riforme che prendeva il nome dal premier democristiano e che prevedeva una soluzione articolata: il capoluogo e la giunta della regione sarebbero rimasti a Catanzaro, mentre a Reggio Calabria sarebbe andata la sede dell'Assemblearegionale. Il compromesso era stato accompagnato da una serie di promesse d'investimento nel settore industriale, che porterà alla fallimentare realizzazione dei poli siderurgico (Gioia Tauro) e chimico (Saline Joniche).


Dal "pacchetto Colombo" ai treni per Reggio Calabria


L'annuncio del premier non riuscì tuttavia a placare la rabbia del Comitato, deluso fortemente dal compromesso e dalla conferma di Catanzaro capoluogo regionale. Numerosi scontri si verificarono per tutto l'anno 1971 culminati con un'altra vittima caduta nello stesso luogo dove esattamente un anno prima era morto l'autista Angelo Campanella. Ancora una volta sul ponte Calopinace, gli scontri a fuoco tra i manifestanti e le forze dell'ordine causarono la morte di un giovane barman, il venticinquenne Carmelo Jaconis.
L'ennesimo episodio di violenza portò alla definitiva repressione della rivolta popolare, che nei mesi precedenti era arrivata a proclamare una sorta di zona autonoma, la cosiddetta "Repubblica di Sbarre", dal nome del quartiere più coinvolto nei moti. Gli otto lunghi e sanguinosi mesi della battaglia di Reggio Calabria si conclusero con il rumore dei cingoli dei carri armati e ancora una volta con il boato del tritolo. A un anno di distanza dai gravi scontri che causarono l'ultima vittima della rivolta i sindacati dei metalmeccanici scelsero Reggio Calabria come sede della vertenza nazionale. Ancora attivi erano gli esponenti del Comitato e la scelta della città era suonata come una provocazione, che fece tornare la tensione dei mesi precedenti. Il 22 ottobre 1972 dieci ordigni esplosero lungo la linea ferroviaria dove transitavano i treni speciali che portavano i delegati. Il bilancio fu fortunatamente lieve (cinque feriti) ma la notizia fece comunque molta impressione in Italia e all'estero.
Per la città di Reggio Calabria si aprivano gli anni settanta, tra i più difficili per gli effetti della crisi economica e delle disattese promesse di sviluppo economico prospettate durante i mesi della battaglia, situazione solo parzialmente mitigata dalla ripresa degli anni ottanta nota come la "Primavera di Reggio".

Ciccio Franco (C) durante un comizio nel luglio 1970. A destra Alfredo Penna, ex partigiano e membro del Comitato d'Azione per Reggio Capoluogo (Mondadori via Getty Images)

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Edoardo Frittoli