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Libia: in caso di conflitto interno, l'Italia è dalla parte giusta?

I governi di Tripolitania e Cirenaica restano in forte attrito: Roma ha appoggiato il primo, ma è l'altro a essere riconosciuto a livello internazionale

"Non ho tempo da perdere con le Nazioni Unite. Non m'importa niente delle decisioni del Gna (il Governo di unità nazionale, ndr), le sue decisioni sono solo pezzi di carta. Non credo che questa soluzione imposta dall'Onu avrà successo". A parlare è Khalifa Haftar, il generale che comanda le forze armate libiche ed è espressione del parlamento diTobruk, l’unico sinora riconosciuto dalla comunità internazionale.

Haftar non solo non ha intenzione di riconoscere il governo ufficiale appena insediato, ma rappresenta anche la vera mina vagante nel contesto libico, tale che la sua presenza pone un serio problema di legittimità e di riconoscimento politico. E non parliamo di carte bollate, ma di autorità costituita. Infatti, dopo che l’inviato speciale dell’Onu in Libia, Martin Kobler, ha varato il protocollo di Tunisi e forzato la mano portando alla formazione del Governo di Accordo Nazionale di Faiez Al Serraj, il passo successivo è divenuto il rispetto del protocollo stesso. Il quale prevede che "tutti i poteri delle alte gerarchie militari e di sicurezza siano trasferiti alla presidenza del consiglio". Ed è proprio qui la radice del problema. Già, perché Serraj, per quanto sostenuto dall’Onu, di fatto non controlla davvero né la capitale né l’amministrazione pubblica, intesa nel suo complesso di funzionari civili e militari.

Chi comanda in Tripolitania e Cirenaica
Il governo di Serraj, inoltre, è ancora asserragliato alla base navale di Abu Sittah, segno dell’incertezza e dell’insicurezza che ancora regnano a Tripoli. Di fatto, dunque, la sua autorità politica non si estende al resto del Paese. Di certo non fino alla Cirenaica, dove invece è forte il peso del generale Haftar che, grazie all’esercito a lui fedele, ha occupato militarmente Bengasi e ora controlla l’est della regione, tra cui la stessa Tobruk, dov’è insediato il parlamento libico. La sicurezza nella capitale è affidata invece alle sole forze di Misurata, una milizia agguerrita che ambisce a farsi esercito e che, dopo l’esperienza all’interno della coalizione Alba Libica (che univa i misuratini ad altre forze islamiste e che ha preso il controllo della capitale con il benestare del Muftì di Tripoli già dall’agosto 2014) oggi si pone come principale garante dell’ordine pubblico in Tripolitania.

In mezzo, come noto, resta Sirte, occupata dallo Stato Islamico e nel mirino tanto delle milizie di Misurata, quanto dell’esercito di Khalifa Haftar, anche perché il suo bacino è prezioso per il controllo del petrolio. La corsa per espugnare Sirte darebbe dunque grande prestigio a chi dovesse riuscire nell’operazione. Una campagna vittoriosa contro i miliziani del Califfato porterebbe senz’altro a negoziare da un notevole punto di forza, poiché il vincitore potrebbe presentarsi alla popolazione come il vero liberatore.

Congelato l’attacco contro lo Stato Islamico
Proprio per questo, nei giorni scorsi l’Onu e Serraj avevano chiesto all’esercito di Haftar di non avviare l’offensiva contro Sirte, per includervi le milizie di Misurata, le quali sono a loro volta pronte ad avanzare e intestarsi la vittoria per prime.

Il governo libico avrebbe creato anche una struttura ad hoc, chiamata "Sala operativa per la liberazione di Sirte" e guidata dal generale Bashir al Qadi, per condurre operazioni militari congiunte tra le forze in campo. Ma non sembrano esservi ancora le condizioni necessarie perché questo tipo di struttura diventi operativa. Lo stesso generale Haftar ha ben illustrato la situazione sul campo al momento: "Non ho tempo da perdere con Kobler (l’inviato Onu), io faccio conto sull’esercito e la polizia, e non certo su un funzionario delle Nazioni Unite”.

Le alleanze in Libia
Dunque, tutto è ancora da concretizzarsi e non è detto che l’incontro odierno organizzato al Cairo tra il premier del governo di unità nazionale Serraj e Aqilah Saleh, presidente dell'Assemblea dei deputati di Tobruk, sortirà l’effetto sperato. Quello cioè che, sotto la mediazione dell'Egitto, punta ad avvicinare gli antagonisti e a creare un coordinamento militare prima di attaccare Sirte (di certo, l’abbattimento dell’aereo dell’Egypt Air ha quantomeno complicato le cose).

Ora, dal punto di vista delle alleanze, sappiamo che Haftar ha il sostegno delle forze francesi, che lo hanno aiutato nella presa di Bengasi e che puntano a un protettorato nell’area; dell’Egitto, che più volte ha contribuito alle operazioni militari di Haftar e che spera in un suo successo, al fine di accrescere l’influenza in Cirenaica; e degli Stati Uniti, dal momento che il generale è una loro creazione (Haftar è rientrato in Libia per rovesciare Gheddafi dopo un esilio durato vent’anni in Virginia, dov’è rimasto a stretto contatto con la Cia).

Serraj, invece, ha l’appoggio generico delle Nazioni Unite, che lo scorso 16 maggio a Vienna hanno ventilato la possibilità di congelare l’embargo sulle armi per rifornire il futuro esercito libico (una sorta di “liberi tutti”); e dell’Italia. Non a caso il 12 aprile scorso, dopo la proclamazione del nuovo governo di unità nazionale, Roma ha inviato a Tripoli il nostro ministro degli Esteri. Paolo Gentiloni è stato così il primo ministro occidentale a far visita al governo Serraj. Il che pone un interrogativo...

Se le posizioni tra Haftar e Serraj resteranno siderali. Se il premier non troverà una collocazione adeguata al generale in un futuro assetto istituzionale. Se neanche la National Oil Corporation, l’ente libico per il petrolio (oggi diviso tra Tripoli e Bengasi) si unirà in un unico soggetto. Se tutto ciò accadrà, il rischio di un nuovo conflitto interno alla Libia è certo una possibilità. E quando e se si verificherà il caso, Roma sarà schierata dalla parte giusta della storia?

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Luciano Tirinnanzi