Libia, Bengasi
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Libia, la guerra senza vincitori

Il conflitto prosegue e tra Haftar e Al-Serraj nessuno sembra prevalere, mentre il paese è vicino al collasso

Cinquant’anni dopo la presa del potere di Gheddafi, la Libia è sempre più avvitata in una guerra civile permanente, in queste ore concentrata intorno all’aeroporto di Mitiga e a Murzuq, in pieno deserto, dove le forze in campo tentano sortite ostinate e blitz a ripetizione, senza però alcun risultato apprezzabile o strategia riconoscibile. È così che, al 2 settembre, si contano già mille morti e centomila profughi. Un bilancio drammatico ma parziale, cui vanno sommati i cinquemila detenuti nei centri per rifugiati e gli oltre ottocentomila migranti sparpagliati un po’ ovunque, in attesa della prima occasione per solcare il Mediterraneo.

Nel totale disinteresse italiano e internazionale (dal G7 di Biarritz di alcune settimane fa solo uno scialbo comunicato su un «cessate il fuoco»), il mese di agosto è stato così uno dei più caldi del conflitto, che ormai ha completamente tagliato in due le regioni principali della Libia, Tripolitania e Cirenaica, e ha visto naufragare la road map che, secondo le Nazioni Unite, avrebbe portato alla fine delle ostilità nel 2019. Al contrario, i combattimenti si sono adesso allargati non soltanto alle periferie di Tripoli, ma si sono spinti fin nel deserto del Fezzan, che sinora era stato soltanto lambito dai lampi della guerra.

Un conflitto estenuante che nessuno degli «eserciti» in campo sembra, in ogni caso, in grado di vincere: né le milizie del Gna, il Governo di accordo nazionale, che rispondono al premier tripolino Fajez al-Serraj e che si sostanziano in un’alleanza di soldataglie private e volontarie; né le truppe dell’Lna, l’Esercito nazionale libico, guidate dal generale cirenaico Khalifa Haftar, che lo scorso 4 aprile ha deciso di scatenare contro Tripoli «l’offensiva finale» per prendere il controllo dell’intero Paese.

La situazione sul campo

Sebbene Haftar vanti alleati potenti come Francia, Arabia saudita, Egitto ed Emirati arabi uniti, infatti, le cose non stanno andando come sperava. L’11 agosto, per esempio, un attentato alle porte di Bengasi contro forze dell’Onu (un’autobomba ha fatto cinque morti) ha riportato l’incertezza anche nella città che più di tutte si vorrebbe «pacificata dal terrorismo» - come dal generale stesso più volte ostentato - e che è assurta a simbolo della riscossa laica per «ripulire l’ovest da fanatici terroristi e mercenari».

Alle porte di Tripoli, intanto, si susseguono ormai regolarmente bombardamenti e raid aerei: soprattutto intorno al complesso di Mitiga, dove una successione di razzi grad e droni di fabbricazione cinese (assemblati da esperti degli Emirati arabi uniti) tentano di rendere inservibile l’unico aeroporto teoricamente aperto della regione, per impedire i rifornimenti aerei di Qatar e Turchia, preminenti alleati al fianco di al-Serraj. Rifornimenti che, ovviamente, sono un’aperta violazione di quell’embargo Onu che, in teoria, dovrebbe impedire l’introduzione in Libia di armi da guerra.

La Turchia, perciò, si serve soprattutto del porto di Misurata - la «piccola Sparta» che ieri si opponeva all’Isis e oggi al raìs della Cirenaica - per approvvigionare la capitale di mezzi corazzati e artiglieria leggera, e per fornire a sua volta droni da combattimento. Alcuni dei quali sono stati obiettivo di un raid mirato contro l’accademia aeronautica cittadina lo scorso 18 agosto, perché là si troverebbero i piloti stranieri che comandano da remoto i velivoli da combattimento «made in Ankara». I libici, infatti, non hanno sufficienti competenze per pilotarli, e lo stesso vale per i piloti da remoto delle forze di Haftar, tutti reclutati all’estero.

La controffensiva di Tripoli

Dalla seconda metà di agosto, inoltre, le forze armate dell’Lna hanno intensificato le incursioni aeree e le operazioni terrestri sopra gli avamposti del Gna a sud di Tripoli, nella speranza di frenare la controffensiva che il premier al-Serraj ha appena lanciato contro i distretti di Jufra, Sebha e Murzuq, ovvero le città chiave nel deserto del Fezzan. Lo scopo dei tripolini è, infatti, alleggerire la manovra a tenaglia del generale intorno alla capitale, aprendo un fronte lasciato colpevolmente scoperto.

La mossa di al-Serraj, apparentemente disperata, ha portato i suoi frutti. Al punto che, in queste ore, Haftar sembra costretto a una scelta di campo: difendere Murzuq o rinforzare la prima linea a sud di Tripoli. Nel primo caso, la marcia sulla capitale si arresterà inevitabilmente; nel secondo, c’è il rischio concreto per il generale di perdere il controllo del Fezzan. Dove peraltro le popolazioni Tebu e Touareg combattono a loro volta una guerra intestina, che sfugge alla linearità delle contrapposizioni in campo e che ha radici nell’innata insofferenza dei locali verso un’autorità centrale.

Contemporaneamente, il Gna ha lanciato un attacco a sorpresa anche contro Qasr Ben Ghashir, ovvero l’avamposto e centro di comando del generale a ovest, che si trova a soli 34 chilometri da Tripoli. Lo stratagemma punta a tagliare in due le linee di rifornimento dell’Lna: se dovesse funzionare, questo non soltanto costringerebbe gli uomini di Haftar a ripiegare, ma comprometterebbe seriamente l’intera campagna per impadronirsi della capitale libica.

A Qasr Ben Ghashir, infatti, si trova quello che fu il più importante scalo internazionale libico, inaugurato nel 1937 da Benito Mussolini in persona insieme al Governatore della Libia Italo Balbo, e che in onore al duce prese il nome di Castel Benito. Qui Haftar ha allestito un ponte aereo per mettere in scacco Tripoli. Perdere questa località strategica segnerebbe la fine delle speranze del generale di ricevere approvvigionamenti costanti di carburante, armi e munizioni da Bengasi e dagli alleati internazionali.

Il logoramento degli eserciti

Anche se, a dirla tutta, oltre alle armi in questa battaglia d’internazionale c’è davvero poco. Ed è una delle principali ragioni per le quali nessuna delle parti riesce a prevalere. Senza un intervento esterno, infatti, solo il logoramento porterà una delle due città contendenti a prevalere. Ma a quale prezzo?

È vero che la superiorità aerea dell’Lna di Haftar ha permesso alle sue forze di segnare importanti progressi negli scorsi mesi (a differenza di al-Serraj, infatti, il generale dispone non solo di droni ma anche di esperti piloti), eppure sul terreno questa superiorità si è progressivamente azzerata, data la scarsa preparazione delle forze terrestri di Bengasi e grazie anche alle comprovate tecniche di guerriglia e alla resilienza di cui le milizie di Misurata hanno dato prova di sé in più occasioni; in pratica, sin da quando la caduta di Gheddafi ha «spalancato le porte dell’inferno», per usare un’espressione cara agli islamisti.

Infine, vale la pena segnalare come le fonti di Panorama tra le fila delle forze di Haftar siano silenti da giorni. Il che la dice lunga su quanto critico sia il momento che l’Lna sta affrontando in queste ore. Tra un passo in avanti e due indietro, infatti, il nulla di fatto prelude a un divide et impera che potrà fare soltanto la fortuna di chi ha più scommesso sul collasso libico: Russia e Cina in primis, poco interessate agli esiti del conflitto e molto invece alla ricostruzione. E l’Italia? L’agenda è vuota e il silenzio sull’argomento che si registra dalle parti di Montecitorio e Palazzo Chigi è a dir poco imbarazzante.

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