latte alpino falso
Massimo Percossi- Ansa
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Latte alpino: i rischi di possibili frodi alimentari

In commercio ci sono formaggini, burro e fettine di formaggio fuso a base di "latte alpino" che alpino non è. Il Mise chiama in causa i produttori

Non è vero che tutto il latte è bianco. Esistono diverse sfumature di bianco legate alle valli dove vengono allevate le vacche che producono la nostra materia prima”. Sono le parole dell'amministratore delegato di una società che produce formaggini, burro e fettine di formaggio fuso e polvere di latte per una grande multinazionale italiana.

Il manager è chiaro: c’è latte e latte. E quindi, esistono vacche e vacche, così come aree e zone geografiche differenti che conferiscono al latte caratteristiche diverse. Tutto chiaro. Eppure riuscire a far comprendere allo stesso manager che se una vacca è allevata in pianura non può, sicuramente, produrre “latte alpino”, non è stato altrettando facile. Anzi, per chiarire questo concetto elementare, c’è voluto il Ministero dello Sviluppo economico

Infatti, secondo quanto emerge da un documento del Mise, per il produttore tutte le vacche piemontesi sarebbero diventate "alpine", dal 16 giugno 2014. E questo è un problema.

Latte alpino falso

La data che viene riportata sulle etichette dei prodotti in questione (assieme ad una immagine delle Alpi) per garantire al consumatore che sta acquistando un “vero” prodotto alpino, è quella della decisione n.3898 della Commissione Europea che indica lo "Spazio Alpino Europeo", ovvero un'area geografica oggetto di un programma-quadro per il finanziamento pubblico di progetti internazionali di sviluppo.

In Italia, ad esempio, sono sette le regioni indicate: Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto.

È dunque evidente che questa direttiva (che ricomprende anche territori che si affacciano sul mare) non ha niente a che vedere con le normative che disciplinano i “prodotti di montagna”.

L’interpretazione “distorta” della decisione europea    

Insomma, se applicassimo quanto recita la decisione n.3898/14 ad ogni singola mucca presente in queste regioni, scopriremmo che anche una di quelle allevate a Lodi o Cremona, nel cuore della Pianura Padana oppure a Sestri Levante o a Iesolo, è una vacca d’alpeggio

Il Mise chiarisce ogni dubbio. “Includere tutti i territori che possono usufruire dei finanziamenti (indicati dalla direttiva n.3898, ndr.) quindi non solo le zone alpine specificatamente indicate dalla Convenzione internazionale, sarebbe una forzatura- dichiara nel documento, Stefano Firpo, direttore generale del Ministero dello Sviluppo Economico – se un produttore decide di indicare in forma scritta o anche semplicemente grafica l’origine di un prodotto o di un ingrediente contenuto nell’alimento si assumerà la responsabilità di tali affermazioni”.

I controlli della repressione frodi

Eppure negli scaffali dei più importanti supermercati italiani sono apparsi formaggi e prodotti lattieri qualificati come “alpini” che utilizzano “latte alpino” proveniente dallo “spazio alpino piemontese”.

Il Ministero, ha immediatamente dato comunicazione al Mipaaf ed in particolare all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari, della presenza in commercio di prodotti “alpini” che si richiamano illegittimamente a questa direttiva. “Nel momento in cui si vuole spendere l’origine alpina di un prodotto o di un ingrediente si ritiene che sia opportuno fare riferimento a quei territori individuati nella relativa Convenzione internazionale - puntualizza il direttore Firpo – Il programma transnazionale Spazio Alpino 2014-2020 nasce “solo” con la finalità di supportare, attraverso i progetti finanziati a livello europeo, lo sviluppo sostenibile delle regioni alpine”.

Il dissenso del mondo politico

Ma le polemiche e le prese di posizione durissime ci sono state non solo tra i produttori ma anche nel mondo politico.

“La posizione del Mise ha messo un punto fermo importantissimo in una normativa piuttosto contorta e confusa che, pur indicando tassativamente le aree geografiche “alpine”, lasciava comunque spazio a possibili diverse interpretazioni – dichiara a Panorama.it,Massimo Forino, direttore di Assolatte - e, inoltre, ha precisato a tutte le aziende che non è legittimo utilizzare la dicitura “latte alpino” facendo riferimento a questa decisione europea”.

Non si tratta, infatti, solo di una delle tanti frodi di cui sono vittime i consumatori ma anche di un grave danno economico arrecato all’intero comparto.

Si tratta un fatto grave. La correttezza delle indicazioni dei prodotti in etichetta è fondamentale non solo per garantire al consumatore la qualità delle materie prime utilizzate ma anche per tracciare un’economia legata alla filiera - ci puntualizza l’onorevole Ermete Realacci, Presidente della Commissione Ambiente alla Camera dei Deputati - Acquistare consapevolmente un prodotto che si a realmente ‘alpino’, significa anche poter garantire la sopravvivenza ad una economia montana che spesso è sofferente o comunque ha maggiori difficoltà rispetto ad altri territori”.    

La rabbia dei comuni e delle associazioni di categoria

Sull’argomento interviene anche il vicepresidente del comitato che racchiude tutti i Comuni alpini, Alleanza delle Alpi, Roberto de Marchi. "Mi sento truffato sia come consumatore che come rappresentante di un’area alpina. Indicare illegittimamente “latte alpino” su una confezione significa non solo frodare l’acquirente che è convinto di ritrovare in quel prodotto caratteristiche tipiche delle zone di montagna ma danneggiare profondamente sia il tessuto economico che sociale”.

Sull’uso improprio ed ingannevole della dicitura “latte alpino”, alcune associazioni e comitati direttamente o indirettamente danneggiati, non hanno escluso di procedere per vie legali a difesa degli interessi diffusi che queste etichettature potrebbero aver leso. 

“Anche il Codacons, una volta acquisiti gli ultimi documenti ufficiali e le pubblicità- spiega a Panorama.it, il presidente Carlo Rienzi- valuterà in che modo procedere legalmente, considerando che alcuni sono prodotti a marchio, per tutelare i consumatori italiani”.

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Nadia Francalacci