A cosa servono le larghe intese?
Claudio Onorati /ANSA
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A cosa servono le larghe intese?

Il presidente del Consiglio, l’uomo che avrebbe dovuto incarnare l’alta sfida delle larghe intese, ha volato basso. Anzi, non ha proprio preso il volo

A che cosa servono le larghe intese?  Nell’esempio che ci arriva dalla Germania servono soprattutto a osare politicamente, a sfidare l’impossibile per mettere in piedi un poderoso piano di riforme e di rilancio di una nazione. Con una premessa: la reciproca legittimazione, la pari dignità delle parti in causa. In Italia l’avvio di un faticoso percorso comune tra Pdl e Pd avrebbe dovuto coincidere almeno con l’inizio di una pacificazione dopo una guerra combattuta per quasi vent’anni senza esclusione di colpi. Vent’anni tremendi. Vent’anni di terrore e di furore antiberlusconiano, durante i quali abbiamo assistito, spesso impotenti, a una sistematica demolizione dello stato di diritto e alla drammatica agonia dell’imparzialità e della terzietà del giudice.
Dal 1° agosto, giorno della condanna del Cav. in Cassazione a opera di un collegio diverso da quello stabilito per legge, il sentiero della pacificazione su cui si era sottoscritta in Parlamento l’esperienza delle larghe intese è franato. La rottura del patto costitutivo dell’alleanza è avvenuta quando s’è toccato con mano l’estremismo persecutorio del Pd sulla  retroattività della legge Severino: può una pena, come la decadenza, valere per reati commessi quando quella legge ancora non esisteva?

Giuristi di chiara fama e maestri del diritto certamente non riconducibili al mondo berlusconiano, a cominciare da Luciano Violante, ex presidente della Camera ed ex magistrato, avanzavano sostanziosi dubbi costituzionali, ma dentro e fuori la giunta delle immunità si è strumentalmente gridato allo scandalo, si è falsamente detto e scritto che il Senato non poteva essere un quarto grado di giudizio, e si è giunti a sostenere oltre il ridicolo che la pretesa di Silvio Berlusconi era paragonabile a una legge ad personam. Una marea di balle. Rivolgersi alla Consulta, per sciogliere le perplessità avanzate da costituzionalisti al di sopra di ogni sospetto, significava riconoscere a Berlusconi un diritto che non avrebbe inficiato in alcun modo l’esito del procedimento. Anche perché ci avrebbe pensato la giustizia ordinaria a rendere inaccessibile il Parlamento a Berlusconi, con la condanna all’interdizione dai pubblici uffici.
Messo davanti a un estremismo così becero e insensato, che cosa ha fatto Enrico Letta? Il presidente del Consiglio, l’uomo che avrebbe dovuto incarnare l’alta sfida delle larghe intese, ha volato basso. Anzi, non ha proprio preso il volo ed è rimasto con le alucce per terra. Gli è mancata l’iniziativa e prima ancora il coraggio. Poteva intestarsi il merito di sventolare la bandiera del diritto, rivendicando con orgoglio l’appartenenza a un partito garantista e non al guinzaglio dei manettari; e avrebbe perfino sottratto all’odiato condannato l’alibi del perseguitato. D’accordo, serviva un buon filetto di tigre e invece il nostro ha continuato a mandar giù le solite coscettine di coniglio. Nulla da fare.
Il resto, a iniziare dalla crisi per l’aumento dell’Iva, è una conseguenza. Ma su Imu, Iva, legge di stabilità e grandi riforme il governo delle larghe intese avrebbe potuto fare di tutto e di più. E pure bene. Se solo il Pd non avesse avuto paura di fare i conti con uno specchio dove, sull’immagine del governo, affiorava sempre quella di Silvio Berlusconi. Altro che pacificazione. Lo sport più praticato in questi ultimi mesi dagli uomini del Pd è stato quello di sputare negli occhi al leader del principale partito alleato. Nessuno li ha fermati. Molti, come Letta e i suoi fedelissimi compagni di governo, si giravano dall’altra parte per fare finta di non vedere. Oggi, stritolati da tanto estremismo, piangono sulle sorti dell’Italia. Potevano pensarci prima.  
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Giorgio Mulè