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ANSA/UFFICIO STAMPA MARINA MILITARE
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La storiaccia brutta del "barcone della morte"

Il governo ha voluto irrazionalmente recuperare i cadaveri degli immigranti in un peschereccio affondato nel 2015. Spendendo 20 milioni che, invece, potevano salvare molte vite

Da qualunque parte la si guardi, è davvero una brutta storia. Una vera storiaccia, tutta italiana. Non solo per i poveri morti, un numero imprecisato d'immigrati, uomini donne e bambini provenienti chissà da dove, che si sono inabissati con un peschereccio eritreo il 18 aprile 2015, 100 miglia al largo delle coste libiche.

Ma anche per il crescente odore di speculazione mediatico-politica e per l'evidente spreco economico, perfino per l'incredibile sospetto di maneggi economici, che come un'ombra nera si sta allungando sull'operazione recupero.

Con una decisione senza precedenti, il presidente del Consiglio Matteo Renziha infatti deciso il recupero del peschereccio eritreo, bloccato sul fondo a 370 metri di profondità: l'idea era quella di riportare a riva i poveri resti dei tanti rimasti intrappolati nella stiva del pescherccio.

Poteva sembrare un'operazione dettata dalle migliori intenzioni, ed effettivamente come tale è stata condotta con dedizione eroica dagli uomini della Marina militare e dei Vigili del fuoco.

In realtà si è presto capito che la decisione era del tutto irrazionale: nel Mediterraneo, in oltre dieci anni d'immigrazione disperata, sono morti almeno in 13 mila, per oltre 10 mila cadaveri mai recuperati.

Perché un'operazione recupero solo in questo caso, peraltro così difficile operativamente? Insomma, perché gli affogati del peschereccio sì, e tutti gli altri no?

Ma ormai l'operazione "barca della morte" era partita: a un certo punto, il presidente del Consiglio ha anche dichiarato di voler "mettere il barcone davanti alla nuova sede del Consiglio europeo", a Bruxelles, aggiungendo che "almeno tutte le volte che c'è una riunione, anziché guardare solo i divani nuovi si guarderà l'immagine di quel barcone e dello scandalòo di una migrazione".

Insomma, un'operazione apparentemente umanitaria si è presto trasformata in un'operazione esclusivamente mediatica, tesa alla denuncia dell'insensibilità europea sull'immigrazione. E forse solo per questo è continuata, malgrado tante difficoltà.

Perché i lavori di recupero sono partiti lo scorso aprile: ma si è capito subito che sarebbero stati difficilissimi e costosi. Infatti l'imbarcazione è stata individuata dai sommozzatori della Marina e faticosamente imbragata. Ma quasi subito tutto si è arrestato per le difficili condizioni del mare. E così il peschereccio è stato riaffondato.

In giugno è partito il secondo tentativo. Questa volta la Marina ha chiesto l'intervento di un'impresa privata, la Fagioli di Reggio-Emilia, quella stessa che anni fa era già riuscita ad agganciare e a stabilizzare la Costa Concordia, arenata al largo dell’isola del Giglio.

Dopo alcuni tentativi, l’aggancio è riuscito. Ma l’operazione in parte è fallita. Perché si era tentato d'imbragare il relitto con una grande fascia refrigerante, che avrebbe dovuto conservare i corpi delle vittime imprigionati nella stiva. Le correnti, però, hanno reso impossibile l'operazione.

Il peschereccio è stato comunque trasportato nella rada di Augusta (Siracusa) e collocato sotto un tendone refrigerato.

A individuare ed estrarre i morti, contenuti nella stiva della nave, a questo punto, sono stati chiamati i Vigili del fuoco. Dotati di un'attrezzatura del tutto inadeguata (tute generalmente di tela, talvolta addirittura di carta, e mascherine improvvisate), sono entrati nel relitto e si sono trovati davanti un vero girone d'inferno dantesco: centinaia di cadaveri in putrefazione, non più distinguibili l’uno dall’altro.

Libero Costantino Saporito, rappresentante nazionale dell’Unione sindacale di base dei Vigili del fuoco, ha dichiarato: "È qualcosa che non si può descrivere: centinaia di corpi rimasti più di un anno sul fondo marino e chiusi in una stiva che poteva contenerne al massimo 40. Donne, bambini, neonati, anziani: tutti in un unico, impressionante groviglio".

A quel punto, Carlo Giovanardi, senatore del gruppo di Idea, e Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, hanno presentato un'interrogazione congiunta al governo Renzi, chiedendo il perché dell'operazione e sottolineandone il costo elevato: circa 10 milioni di euro, spesi mentre c'è carenza di “fondi per la ricerca e il salvataggio di persone che possano essere ancora in vita, italiani o migranti”.

Giovanardi e Gasparri hanno chiesto anche un dettaglio dei costi e il perché dell'assegnazione dei lavori alla Fagioli.

Era l'inizio di luglio. All'interrogazione però non è arrivata alcuna risposta, e anzi è stato a quel punto che si è iniziato a parlare di assurdi esami del Dna.

In un nuovo cortocircuito d'irrazionalità e propaganda, s'è infatti ipotizzato di sottoporre i poveri resti dei migranti, infilati del tutto casualmente in centinaia di sacchi neri (alcuni documenti parlano di 458 "body bag", altri di 675 salme, ma ci sono articoli di quotidiano che arrivano a calcolarne 700), a un esame autoptico teso a "definire nazionalità e possibilmente l'identità di ciascuno".

Il 15 luglio il prefetto di Siracusa, Armando Gradone, ha spiegato in una conferenza stampa che questa operazione Dna-identificazione sarebbe stata affidata alle tre università siciliane, che sarebbe stata coordinata da una luminare del settore come Cristina Cattaneo, dell'Università di Milano, e che il suo costo sarebbe stato di circa 9,5 milioni.

Eppure è impossibile identificare le povere vittime, dissolte come sono in un groviglio; e soprattutto sarà assai improbabile che dall'Africa arrivino richieste di informazioni sulla sorte di parenti e congiunti in fuga e scomparsi, per di più corredate da campioni genetici per il confronto.

Così siamo arrivati a un totale di circa 20 milioni di euro, spesi del tutto irrazionalmente.

Con un'appendice velenosa e triste: perché il 28 giugno scorso è naufragato davanti alle coste di Porto Palo (Siracusa) un peschereccio italiano, comandato da Giovanni Costanzo, 62 anni. Dopo due giorni la Capitaneria di porto ha sospeso le ricerche: le ricerche costano, hanno detto i responsabili, e purtroppo non ci sono fondi.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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