L'ultimo treno per la libertà
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L'ultimo treno per la libertà

Sette anni per i reati contestati all'ex premier appaiono come un'opera di ingegneria giuridica

Non ci giriamo intorno: la sentenza che ha condannato Silvio Berlusconi a 7 anni per l’affaire Ruby ha l’effetto di un colpo di lupara che con la sua rosa di pallettoni centra più bersagli con un solo sparo. Il verdetto (che si aggiunge ai 4 anni per la frode fiscale Mediaset e ai 12 mesi di carcere per la vicenda Unipol) è devastante umanamente per il Cavaliere e per i 32 testimoni che rischiano adesso di essere processati per falsa testimonianza, è sconvolgente politicamente per il Popolo della libertà e per il Partito democratico, rischia di essere traumatizzante per le sorti del governo Letta e quindi per il destino dell’Italia. Proviamo a non mischiare gli ambiti, perché è proprio dall’eventuale combinazione dei diversi piani che si rischia di provocare una reazione esplosiva difficilmente controllabile. Iniziamo dal
processo in senso stretto.

Sette anni di carcere per i reati contestati all’ex premier (concussione e prostituzione minorile) costituiscono un’enormità. È una condanna che – per quantità – un qualsiasi cittadino non accecato dall’odio antiberlusconiano non può accettare. Per un fatto di equità, banalmente. Berlusconi non può essere assimilato a quei luridi uomini che approfittano di adolescenti (un imprenditore è stato condannato a gennaio 2013 a 3 anni di reclusione per avere fatto sesso a pagamento con una tredicenne), non merita una pena più severa di sacerdoti pedofili colpevoli di abusi su minorenni (5 anni è la condanna recentissima di un prete), non può essere destinatario di un castigo superiore a quello di un giovane che ubriaco ha ucciso quattro ragazzi (6 anni e 6 mesi la condanna).

È un verdetto enorme perché i giudici per raggiungere la consapevolezza che Berlusconi sia colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» hanno dovuto accusare di aver mentito tutti coloro che non si sono allineati alla tesi dell’accusa e cioè i 32 testimoni (alcuni,paradossalmente, chiamati a deporre proprio dalla procura) che potrebbero adesso vestire i panni degli imputati. Queste 32 persone (molte ragazze, ma anche uomini e donne impegnati in politica o con ruoli di responsabilità nella pubblica amministrazione e nella società) sono state consegnate alla schifosa gogna mediatica, che infatti ha già iniziato (in molti casi proseguito) la distruzione della loro reputazione forte della legittimazione di un tribunale che le ha bollate come mentitrici. Peggio: le ragazze oltre a essere prostitute sono anche prostitute della menzogna, prezzolate per cambiare o adattare la loro versione dei fatti al volere del Cavaliere. Già in aula hanno dovuto subire interrogatori degni del peggiore voyeurismo e della peggiore inquisizione.

 Ecco un rapido compendio delle domande dei pm: ha assistito a interazioni connotate da contatti lascivi?
Ci sono state interazioni tattili, ovvero contatti fisici corporei tra queste ragazze o tra le ragazze e i presenti?
Ricorda se a tavola è girata una statuetta tecnicamente definita un Priapo? Lei ha motivo di ritenere che ciò possa essere accaduto e che lei non l’abbia visto perché si assentava in quanto fumatrice? Quindi lei esclude che sia girata una statuetta raffigurante un omino nudo con l’organo genitale sproporzionato rispetto alle dimensioni della statua? Lei ha mai pronunciato la parola «bunga bunga»?

Per appiccicare addosso al Cavaliere la figura del cattivone, inoltre, i giudici hanno dovuto accusare la funzionaria di polizia che seguì in questura il caso di Ruby la sera del 27 maggio 2010 di avere mentito  spudoratamente. Per superare perfino la richiesta di condanna dei pm, il tribunale ha di fatto stabilito che Berlusconi pretese il rilascio di Ruby e che rivolse in sostanza una minaccia ai poliziotti (è la concussione per costrizione). Non ha importanza se di tutto ciò non c’è traccia nel processo, se le persone direttamente coinvolte hanno totalmente smentito questa ricostruzione, se nes-su-no in questura ha avuto sentore di questa cappa di minaccia. La povera funzionaria di polizia mente anche se non si capisce perché dovrebbe continuare a farlo. Ma tant’è: chiunque sia di intralcio alla verità immaginata dai giudici viene travolto e ne subisce le conseguenze. Ma un processo è l’insieme delle prove, l’armoniosa e genuina rappresentazione di un fatto così come risulta dalle testimonianze. Se quelle presentate dalla difesa saranno poi ritenute false toutcourt,che senso ha difendersi?

 Per questo la sentenza appare non come atto di giustizia ma come un’opera di ingegneria giuridica, con il tribunale che ha ostinatamente fabbricato una concussione per «costruzione».
Se per l’affaire Ruby i tempi per arrivare a una sentenza definitiva non sono brevi, è alle porte il pronunciamento della Cassazione sul caso Mediaset con i 4 anni di reclusione e i 5 di interdizione dai pubblici uffici, senza dimenticare la tenaglia dei verdetti sul lodo Mondadori (la rapina del secolo con i 564 milioni di euro da risarcire alla Cir di De Benedetti) e sull’eventuale processo per la compravendita dei senatori nel 2008. Pur con la minaccia concreta di essere rimosso per via giudiziaria dalla politica come ripete inutilmente da vent’anni, Silvio Berlusconi ha già abbondantemente dimostrato di avere senso di responsabilità. È stato l’artefice della rielezione di Giorgio Napolitano e della nascita del governo delle grandi intese pur avendo la possibilità di mandare tutto all’aria e tornare a votare.

Non si è scomposto dopo che la Consulta gli ha negato il legittimo impedimento e anche adesso, davanti alla concreta possibilità che la vita democratica venga stravolta da una sentenza priva di giustizia, non ha chiamato a raccolta i suoi 9 milioni di elettori, non si è appellato alla piazza. Altro che Caudillo o Caimano, per quella figura bisogna guardare casomai a Beppe Grillo e ai suoi sgangherati urlatori che circondarono il Parlamento durante l’elezione del capo dello Stato. Berlusconi è dominato da una furia calma, dalla necessità cioè di distinguere il piano giudiziario (per il quale è furioso) da quello politico (in cui deve dominare il senso della misura e delle priorità). Il dovere della responsabilità impone di non fare strappi in questo momento, ma impone anche l’avvio di una campagna martellante sull’urgenza di una giustizia giusta; una giustizia che parta dalla non più rinviabile separazione delle carriere e dalla responsabilità civile dei giudici.

Gli avversari diranno che vive di una ossessione, che pensa ai fatti suoi, che non gli frega nulla dell’Italia. Ma ormai anche le pietre hanno capito che la verità è diversa e che non c’è più tempo da perdere. L’attacco finale è partito e prevede il carcere per il Cavaliere e chiunque sia legato a lui, come chi ha osato testimoniare a suo favore. Dimenticavo: chi ha scritto questo articolo è stato già condannato e rischia concretamente anche lui di finire dietro le sbarre. Vogliamo darci una mossa prima che la repubblica delle manette chiuda per chiunque ogni spazio di libertà?

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Giorgio Mulè