«Ridatemi Rosa e buttate la chiave»
Olindo Romano (Ansa)
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«Ridatemi Rosa e buttate la chiave»

La Rubrica - Come Eravamo

Da Panorama del 29 ottobre 2009


A parte la sua Rosa, quel che gli manca di più sono gli hamburger e le patatine. Lo stesso pasto che consumò l’11 dicembre 2006, la notte della strage di Erba: quella per cui è stato condannato all’ergastolo con la moglie.

Olindo Romano, netturbino di 47 anni, ora vive sorvegliato a vista in una piccola cella della casa circondariale di Parma. La moglie Rosa Bazzi, sua complice secondo i magistrati, è reclusa 200 chilometri più a nord: nel carcere di Vercelli. Il processo d’appello dovrebbe cominciare il prossimo gennaio.

In questa intervista, la prima mai concessa, Olindo parla della sua detenzione, di quello che successe quella sera, delle indagini e del suo morboso rapporto con Rosa. Tre fogli a quadretti scritti fitti fitti, fronte e retro, in cui il netturbino attacca tutti: i magistrati, due primedonne «che hanno celebrato un processo farsa»; i carabinieri, che «dovrebbero vergognarsi» per avergli estorto la confessione; gli agenti penitenziari, che sarebbero dei tragediatori; l’opinione pubblica e i media, «che vedono solo quello che gli fa comodo». Si sente un «capro espiatorio», Olindo. Dimagrito di 10 chili, passa le giornate guardando la televisione. Evita ogni rapporto con agenti e detenuti. Si entusiasma solo per le imprese di Valentino Rossi. Un’apatia appena rischiarata dagli incontri con la moglie.

Come ha vissuto questi due anni e mezzo in carcere?

Il mio animo è in letargo: si sveglia per tre ore ogni 15 giorni. Quando arriva Rosa. Per qualche tempo ci siamo visti una sola volta al mese: adesso va un po’ meglio.

Crede che un giorno vi riuniranno nella stessa prigione?

Penso di sì. E spero che questo avvenga prima del processo d’appello. Io e Rosa potremmo vederci più spesso e staremmo vicini: non ci sarebbero le spese e i fastidi di trasferimento ogni 15 giorni.

È in contatto con amici o parenti?

No.

Qualcuno è venuto a trovarla?

Gli unici che vengono, oltre a mia moglie, sono i nostri avvocati.

Riceve lettere?

Non molte. Ma c’è ancora chi ci vuole bene.

Pensa spesso al giorno della strage?

No.

Che ricordi ha di quella sera?

Solo un brutto ricordo.

Qual è la prima cosa che le viene in mente quando si sveglia?

Che la mia Rosa non è qui con me.

E durante la giornata quali sono i suoi pensieri più frequenti?

Ritornare a stare con mia moglie fuori di qui e riprendere la nostra vita.

Come trascorre le sue giornate?

Mi sveglio verso le 8: faccio una bella colazione, poi vedo qualcosa in tv. Alle 9 mi butto in branda: finisce che mi riaddormento. Mi sveglio di nuovo alle 11.30, quando arriva il pranzo: mangio qualcosa, riaccendo la televisione e guardo i notiziari. Se poi c’è un film che mi piace lo guardo, altrimenti mi stendo sulla branda e faccio un sonnellino. Alle 17.30 arriva la cena, dopo mi rimetto davanti alla televisione: qui la spengono alle 2 di notte.

Ha legato con qualche detenuto in particolare?

Li vedo passare ogni tanto. Ma sono sempre solo: non ho contatti con nessuno.

Che rapporti ha invece con i secondini?

Passo parecchio tempo a sentire i pettegolezzi degli agenti che si fermano a parlare con il collega che mi sorveglia: ci studiamo a vicenda. Comincio a sapere molte cose di loro: ce ne sono alcuni che sono persino diventati noiosi. Sempre gli stessi discorsi, hanno pure i tic nervosi: uno balla il tip tap stando seduto, un altro fa il pesce lesso con la guardia che si dà un sacco d’arie, e così via. Chissà cosa scrivono di me sul registro di sorveglianza...

Perché a gennaio di quest’anno ha aggredito un agente?

Aggredito non è il verbo che può definire il fatto successo a Piacenza. In gergo si chiama «bicicletta»: quando uno racconta cose false nel suo interesse.

A che ora va a dormire?

Sempre tardi. Non pensavo che ci si stancasse tanto a non fare niente. Prima però recito il rosario che mi ha dato padre Giancarlo.

Va a messa?

A questo non voglio rispondere.

Si confessa? Prende la comunione?

Anche a questo non voglio rispondere.

Carlo Castagna ha detto qualche settimana fa che potrebbe incontrarvi in carcere. A patto però di un «sincero pentimento».

Un «sincero pentimento» non si richiede, non si pone come condizione: è un valore cristiano.

Quindi non sarebbe disposto a parlare con lui?

Potrei anche farlo, ma non servirebbe a molto. Lui è un padre padrone: più padrone che padre. Difendeva la figlia a spada tratta, nel torto e nella ragione. Non so se questa disgrazia l’abbia cambiato. Ma non penso.

Voi però detestavate Raffaella Castagna e suo marito, Azouz Marzouk.

Avevamo preso le distanze. Ogni tanto ci arrabbiavamo, volava qualche parolaccia. Ma in fondo ci facevano pena. Quante volte abbiamo chiamato i suoi genitori per farli smettere di litigare e picchiarsi...

Nessun pentimento, quindi?

Non potrà mai esserci. Non abbiamo fatto nulla di quello per cui siamo stati accusati e condannati.

Ma è stato lei stesso a confessare il delitto.

Quella mattina io ho chiesto solo di poter vedere mia moglie, per sapere come stava. Invece hanno approfittato della situazione disperata in cui mi trovavo. Facendo leva su sentimenti e affetti, mi dissero che pentirmi e confessare era il minore dei mali: l’unica via d’uscita. Più il tempo passava, meno mi rendevo conto di quello che succedeva. Mi hanno guidato nella confessione. È stata tutto meno che un’ammissione spontanea. Quella mattina i carabinieri hanno raggiunto il loro scopo. Non capivo cosa capitava, pensavo solo a Rosa. Loro dovrebbero vergognarsi per quello che ci hanno fatto. E per come lo hanno fatto.

Altro elemento determinante per la vostra condanna è stata la deposizione di Mario Frigerio, il vicino di casa sopravvissuto per miracolo. Che rapporti avevate?

È una persona che non parla molto. Solo buongiorno e buonasera, raramente ci scambiavamo qualche parola.

È stato lui a riconoscerla: «Sembrava un indemoniato. Mi ha sollevato la testa e ho sentito una lama che mi ha tagliato la gola» ha raccontato ai magistrati.

Le macchie di sangue nella mia auto, la confessione, il video del professor Picozzi: a mano a mano che si succedevano gli eventi, si rafforzava la tesi dell’accusa e veniva facilitata la manipolazione. La testimonianza di Frigerio è arrivata a quel punto, ma lui non può avermi visto quella sera. Io non ero lì, ero da tutt’altra parte con Rosa.

E perché avrebbe dovuto mentire?

Come noi, anche lui è stato usato.

E in che modo giustifica la traccia biologica di una delle vittime trovata nella sua macchina?

Bisognerebbe chiederlo a chi l’ha messa.

Dopo la strage, lei e sua moglie, dicono i carabinieri sulla base di intercettazioni telefoniche e ambientali, non avete mai parlato del delitto. Come mai?

Ne discutevamo con chi veniva a trovarci, non fra di noi. Però, quando uscivamo, sul lavoro, si parlava solo di quello.

Lei adesso si dichiara innocente. Allora chi sarebbero gli autori della strage di Erba?

Visti i metodi che alcuni carabinieri e magistrati usano per arrivare a una loro verità, i pensieri che ho li tengo per me: non voglio che altri soffrano ingiustamente.

Giornali e opinione pubblica sono però convinti della vostra colpevolezza.

Siamo dei capri espiatori.

Durante il processo è stato ripreso mentre scherzava con sua moglie. Non le sembra un gesto di insensibilità?

A volte si ride per non piangere. Stavamo tutto il giorno in quella piccola gabbia e ci concedevamo momenti solo per noi. Il problema è che la maggior parte delle persone e dei media vede ciò che gli fa comodo. La nostra sensibilità è rimasta indignata di fronte a tanta falsità. Ci avevano condannato ancora prima di celebrare un dibattimento già scritto. Due giudici che facevano le primedonne in un processo farsa hanno limitato la difesa ai nostri legali.

Allora non ha fiducia nei magistrati?

Invece sì. Quello che è successo a Como non penso si possa ripetere più.

Crede di poter essere assolto in appello?

È ancora un po’ presto per dirlo.

I suoi avvocati vogliono chiedere una perizia psichiatrica per sua moglie. Lei è d’accordo?

Se va bene a lei, va bene anche a me. La gente conosce poco il suo lato più personale.

Come descriverebbe il suo carattere?

Il mio carattere... Difficile da dire.

Perché i suoi genitori l’hanno chiamata Olindo?

I miei cugini avevano già il nome di mio nonno. A me hanno dato quello di suo fratello, morto nella campagna di Russia: un alpino, come lo sono io.

Da bambino cosa avrebbe voluto fare da grande?

Non ricordo.

Quali erano le sue materie preferite a scuola?

Nessuna in particolare.

Come ha conosciuto Rosa?

Era un pomeriggio d’autunno, con un tiepido sole. Eravamo vicini alla chiesa in cui poi ci saremmo uniti per la vita. Non ricordo le parole che ci siamo detti. Ma non dimenticherò mai il suo sorriso e la sensazione di due cuori che si univano.

Andava spesso in chiesa?

Quando ne sentivo il bisogno. Di certo non per abitudine.

Quale è stato il momento più felice della sua vita?

Ce ne sono stati tantissimi, ma il più felice è stato il matrimonio.

E il più triste?

Quando ci hanno separato.

Il vostro è stato descritto come un rapporto esclusivo, quasi morboso.

Non è vero. Frequentavamo anche altre persone.

Lei ha detto che più dell’ergastolo la spaventa la lontananza da sua moglie. Cosa le manca di lei?

Il suo sorriso, la sua gioia, il suo amore.

E un figlio le manca?

No.

Le sarebbe piaciuto averne uno?

Non lo so.

Se dovesse essere scarcerato, qual è la prima cosa che farebbe?

Andrei subito dalla mia Rosa.

Ha già dei progetti?

No, nessuno.

Come si immagina fra vent’anni?

Francamente non ci ho mai pensato.

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Antonio Rossitto