Conte-Juncker
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Conte: "Così ho convinto Juncker"

I retroscena nel negoziato a Bruxelles sulla Manovra economica, la politica ma anche i sentimenti del Presidente del Consiglio

Per la maturità i miei genitori mi concessero la prima vacanza della mia vita.

E dove andò?
Il viaggio premio fu in Inghilterra. Un viaggio bellissimo, formativo, fatto con pochi soldi. Così totalizzante che quando tornai mi accorsi che a Giurisprudenza i corsi stavano per iniziare.

Ed era un problema?
Direi di sì, perché dovetti correre a Roma e non avevo un letto dove dormire!

Si era iscritto a La Sapienza.
Esatto. I telefonini non esistevano. Per recuperare, grazie al tam tam, trovai all’ultimo momento una sistemazione con altri ragazzi di San Giovanni Rotondo che in paese dicevano: «Abbiamo preso casa a Roma».

Non era così?
(Sorride) L’appartamento in questione era a La Rustica.

Sul Grande raccordo anulare!
Esatto. Ogni mattina uscivo alle 6, prendevo due o tre mezzi per arrivare all’università in tempo per le 8. Non esattamente la vita universitaria che avevo immaginato.

Perché?
Ero sempre bloccato nel traffico, o per strada, o in ritardo cronico. Raggiungevo aule in cui c’erano 800 o mille persone e restavo fuori perché non trovavo posto: per i primi due mesi non ci capii nulla.

E così cambiò casa.
Salutai i miei amici e gli dissi: «Ragazzi, vi voglio bene ma devo avvicinarmi». Mio padre e mia madre mi davano i soldi contati per via di una teoria tutta loro...

Quale?
Che ogni lira in più, si figuri, mi avrebbe messo a rischio per via delle tante tentazioni e distrazioni della Capitale.

E quindi?
Avevo tasse e libri pagati da casa, ma oltre a quello disponevo solo del minimo indispensabile per vitto e alloggio.

Stringeva la cinghia.
Non mi è mancato nulla, ma per tutta la durata degli studi ho mangiato alla mensa universitaria, a tariffa agevolata. Non mi sono concesso distrazioni eccessive.

Quanto spendeva per la casa?
C’erano ancora le lire: tra 200 e 300 mila, più o meno 300 euro di oggi. Lasciai l’appartamento alla Rustica per una nuova sistemazione. Era dietro l’ospedale San Camillo, ma non andava bene nemmeno quella.

Cambiò ancora.
Alla fine presi una stanza in una casa vicino a piazzale Aldo Moro, e lì mi sono potuto concentrare e laureare nei tempi.

Laurea con lode, fra l’altro, e lavoretti per arrotondare.
Escluso il cameriere, ne ho fatti di ogni tipo. E in quegli anni bellissimi e in questo modo sono diventato ciò che sono oggi.

Intervisto Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Il calendario della giornata più importante del suo governo (quella dell’accordo con l’Europa) è frenetico. Mi ritrovo ad aspettarlo nella sua stanza, con due dei suoi collaboratori per la comunicazione, Rocco Casalino e Maria Chiara Ricciuti. Lui ha appena finito di illustrare la manovra al Senato. Fioccano le agenzie, gli aneddoti sulla trattativa, quando entra il presidente del Consiglio sembra raggiante, e addirittura mi dà la scossa porgendomi la mano. Previene la domanda e dice: «Vede? Sono carico».

Presidente Conte, da ore c’è guerra interpretativa, sui media, sull’accordo.
Vedo.

Alcuni dei critici più agguerriti dicono: «Si sarebbe ottenuto di più senza trattativa».
(Sorriso). È curioso: parlano tutti come se al tavolo ci fossero stati loro. Io questa negoziazione l’ho condotta in prima persona, a Bruxelles, poi da qui e con quel telefono, fino all’ultimo minuto utile, e posso dirle due cose certe.

Quali?
Se non avessimo affrontato la Commissione, e non l’avessimo convinta delle nostre ragioni, non avremmo potuto disporre delle risorse che abbiamo e non avremmo potuto spenderle come avevamo deciso di spenderle.

Cioè mantenendo i due provvedimenti-bandiera?
C’erano grandi perplessità in Europa sia su quota 100 sia sul Reddito di cittadinanza.

Altri, soprattutto nel Pd, dicono l’opposto: non c’è stata trattativa perché l’Italia aveva già ottenuto quel che era sul tavolo.
Forse dimenticano che il punto di partenza, quando siamo entrati in carica, era questo: una manovra parametrata su un deficit dello 0,8 per cento e con le clausole di salvaguardia sull’Iva da disattivare per 12 miliardi e mezzo.

È stato giusto arrivare a chiedere il 2,4 per cento secondo lei?
Se non fossimo partito dal 2,4, non avremmo ottenuto mai il 2,04 per cento.

Si dice: le pensioni sono da attribuire prevalentemente alla Lega, il Reddito ai Cinque stelle. Lei quale di queste misure sente più «sua»?
(Sorriso). Le sento tutte come mie.

Compresa la mini Flat tax?
Sarà del 15 per cento fino a 65 mila euro e del 25 per cento fino a 100 mila euro. È un esperimento importantissimo.

Perché?
La Flat tax a cui voglio arrivare non è mini! Questa misura a regime deve diventare la più grande e importante opera di semplificazione del sistema fiscale italiano. Tuttavia, cominciamo con un abbattimento del 10 per cento che riguarda un milione di italiani.

Lei è sensibile al tema?
Sono un cittadino che per anni ha pagato le tasse. La pressione fiscale è troppo elevata, dobbiamo rendere il fisco equo ed efficiente.

Sempre i critici dicono: si è sacrificato tutto per finanziare due provvedimenti assistenziali.
Considero il negoziato - e questo mi pare sia sfuggito a molti osservatori - solo il primo capitolo di una grande e articolata riforma di cui l’Italia ha bisogno.

Spera di ottenere di più negli anni?
Abbiamo convinto l’Europa che stiamo già facendo di più. E che tutti questi interventi sono collegati da una visione di prospettiva comune.

Mi spieghi meglio.
I numerini della manovra contano, anche perché alle spalle hanno vari interventi che ne moltiplicheranno gli effetti, tra cui una delle leggi anticorruzione migliori del mondo, la legge di delega per riformare il codice degli appalti che ci viene richiesta da tutti gli imprenditori. Contano, anche, perché stiamo per varare la revisione di un codice degli appalti di cui tutti gli imprenditori e gli amministratori pubblici ci segnalano difficoltà di applicazione. Noi stiamo intervenendo per sbloccare un sistema fermo.

La Commissione ha valutato anche questi impegni?
Secondo lei conta o non conta la cabina di regia che istituiamo a Palazzo Chigi con i 300 migliori professionisti per sbloccare gli investimenti e seguire i progetti europei anche in fase di realizzazione? Le rispondo io: conta.

Il sistema produttivo come reagisce?
Ai dirigenti delle più importanti aziende partecipate e ho chiesto investimenti per 13 miliardi. L’Italia ora deve ripartire.

I critici dicono che è stata una «resa», lei ha detto: «Abbiamo resistito». C’è una bella differenza.
Resa? Abbiamo mantenuto, in condizioni difficilissime, e malgrado i vincoli che avevano ereditato, gli investimenti più importanti. Abbiamo messo in campo misure per assistere i più deboli moralmente doverose e utili.

Matteo Renzi ha detto che al balcone del suo ufficio, da mercoledì ci si potrà affacciare Juncker.
(Ride). Jean-Claude Juncker fa benissimo il suo lavoro, fino ad aprile. Nel suo ufficio di Bruxelles.

Era un modo per dire metaforicamente che l’Italia ha capitolato.
Ma si figuri! Questo risultato secondo me è una vittoria per l’Italia.

Avete sottovalutato il peso dello spread?
Io no di certo.

Quante volte al giorno lo controllava?
Seguo un principio di salute mentale: con una porzione del mio campo visivo non lo perdo mai di vista, ma faccio
sì di non averlo mai davanti agli occhi.

Quindi il negoziato non era chiuso?
Mercoledì sera la notizia era trapelata e, quando ho telefonato personalmente a Valdis Dombrovskis per sbloccare la situazione, l’accordo stava saltando.

Lei quella sera ha alzato la voce e litigato, in inglese, con l’uomo simbolo degli euro-rigoristi?
(Sorriso). Ho parlato in inglese, di sicuro, ma non ho mai alzato la voce. Ho avuto, però, un tono deciso.

Con Juncker come parlava?
Talvolta in francese, spesso anche con lui in inglese, perché c’erano altre persone.

Quali sono stati i due momenti più critici della trattativa?
Il primo sicuramente quando siamo andati a cena a Bruxelles.

Perché?
Ho chiamato Juncker per concordare l’appuntamento e - dietro un tono che formalmente era impeccabile - ho avvertito la certezza che c’era una decisione presa, e che consideravano l’Italia già fuori.

Cosa ha cambiato questo rapporto?
Quella serata. Partendo da questa sensazione, prima della cena, a cui partecipavano gli altri ministri e Pierre Moscovici, ho chiesto a Juncker di parlargli in privato per venti minuti.

Lo avete fatto.
Ci siamo chiusi in una stanza, solo noi due, e ho puntato sulla sua capacità di lettura politica, sulla sua esperienza. Oggi posso dire che ci siamo capiti. Mentre uscivano mi ha detto: «Farò quel che posso per aiutarti». Lo ha fatto.

Si dice: l’esplosione dei Gilet gialli in Francia ha facilitato la trattativa. I giornali scrivono: questo ha fatto capitolare Berlino.
Vede la differenza tra esserci e immaginare da fuori?

Non è stato così?
Contrariamente a quello che può sembrare in apparenza, la crisi sociale francese nel nostro negoziato ha ottenuto l’effetto opposto.

Per quale dinamica?
Eravamo in un’altra fase. Diciamo, per semplificare, che avevano già convinto le colombe. A quel punto i rigoristi hanno tirato la corda, facendo questo ragionamento: stiamo cedendo con l’Italia, la Francia si prende la sua flessibilità, così la diga del rigore è rotta!

Ha letto Carlo Cottarelli su La Stampa? L’uomo che doveva essere al suo posto dice: «Non so come i tecnici di Bruxelles riusciranno a giustificare il mancato inizio di una procedura di deficit eccessivo. Ricordo che inizialmente l’obiettivo di deficit per l’Italia era dello 0,9 per cento per il 2019».
È quello che ho provato a spiegarle sui termini di partenza della trattativa. Lui la intende come una critica, forse, io come la misura del nostro successo.

L’ho seguita all’Anci, dove lei è rimasto mezz’ora a fare selfie anche con sindaci di partiti dell’opposizione.
Lo considero un segnale positivo. Sono un uomo del dialogo, che sta in un campo, ma non ha pregiudiziali.

Quando legge che, anche nel momento più difficile della trattativa, l’indice di gradimento nei suoi confronti era al 65 per cento si compiace?
Non ci crederà, ma questi numeri non mi interessano.

Infatti non ci credo.
Le spiego. Forse perché di formazione non sono un politico, non mi voglio far influenzare dai sondaggi né in un senso né nell’altro. Se ti compiaci quando sei al 65 per cento sarebbe ovvio deprimersi se perdi 10 punti. Io questo non posso permettermelo.

Vuole dirmi che non controlla le variazioni?
Glielo assicuro: sono numeri che studia Rocco (Casalino, ndr) e quando lui mi fa: «Ma lo sai che...», cambio discorso è dico: «Non voglio sapere nulla».

Addirittura.
Ma ricevo molti segnali diretti, per me i più importanti. Non vivo chiuso in questo Palazzo. Gli imprenditori che incontriamo ogni giorno, le persone con cui parliamo sui posti di lavoro, la gente che ci ferma per strada... Mi sono sentito legittimato, a quel tavolo, nei momenti più duri, perché sentivo di rappresentare gli interessi di tutto il Paese.

Suo figlio sapeva di questo negoziato?
(Sorriso). Il meno possibile. Devo difendere l’innocenza dei suoi 11 anni.

Ma cosa le diceva?
Che lui non vuole avere rapporti con il presidente del Consiglio, ma con suo padre. E ha ragione.

Nella sua biografia, è stata cruciale l’esperienza a Villa Nazareth.
È vero.

Scuola cattolica tra le più prestigiose, il regno del cardinale Achille Silvestrini. Entrare in rapporto con quel mondo è stato un passaggio importante?
Di sicuro. Ma si tratta di una storia particolare, molto diversa da come è stata raccontata.

Lei ha lavorato per tanti anni come collaboratore volontario in quella struttura.
Tutto iniziò perché mia madre leggeva Famiglia cristiana con cura quasi maniacale, dalla prima all’ultima riga.

E cosa aveva letto su quelle pagine?
Di un collegio cattolico dove si poteva accedere con un concorso che si sarebbe dovuto celebrare di lì a breve.

Lei si era appena diplomato.
Le ho raccontato di quei giorni. Non eravamo poveri perché avevamo due stipendi - mio padre dipendente statale, ma madre maestra - ma mia sorella studiava già a Milano, e non navigavamo nell’oro. Mamma pensò che potesse servire, e cosi mi disse: «Partecipa!».

Lei lo fece: vincendo sarebbe entrato gratis.
Erano tempi in cui non esisteva internet, non si poteva verificare informandosi in rete. Io non vidi mai questo ritaglio, non sapevo altro di Villa Nazareth e andai direttamente a fare la prova.

Il collegio aveva appena riaperto, ed era gestito dal cardinal Silvestrini in prima persona.
Un uomo fortemente carismatico che ho avuto la fortuna di conoscere. Un maestro. Un portatore di kerigma, che è il termine greco con cui si indica la capacità quasi profetica di guidare e annunciare la via.

La direttrice dell’istituto di fatto era la professoressa Angela Groppelli, una suora laica paolina di straordinario talento e cultura.
Magra, intelligentissima e sempre in abiti civili. Fu proprio lei a esaminarmi. Usava dei modernissimi test psicoattitudinali per capire le qualità dei ragazzi.

Lei superò quell’esame.
Sì. Ma la professoressa, dopo avermi dato la notizia, mi spiegò che in quella sessione qualcuno aveva più bisogno economico di me. E che la struttura aveva come missione prioritaria quella di assistere i più poveri.

Eppure le vostre strade si incrociarono di nuovo.
Lei non si era dimenticata di me. Con una puntualità e una sicurezza incredibili, esattamente dopo quattro anni, mi telefonò e disse: «Conte, tutto bene? Si è laureato?». Effettivamente mi ero appena laureato, e avevo iniziato a fare l’assistente all’università. E mi propose di collaborare.

Lei lo fece. Perché?
Per un bel sentimento che il filosofo Max Horkheimer definisce «la nostalgia del totalmente altro». Sentivo che avevo sfiorato quel mondo, volevo tornarci.

Oggi è contento di averlo fatto.
Assolutamente sì: pensi che con l’istituto andammo persino in America, in missione. Fu una delle esperienze più belle e utili della mia mia vita. E poi per la conoscenza del cardinal Silvestrini.

Me lo descriva.
C’è un aneddoto privato, che mi ha segnato, ma devo resistere alla tentazione di raccontarlo. A pensarci mi commuovo. Mi ha sempre colpito la grande capacità di comunicare con i ragazzi, di capire le loro insicurezze.

Tra i giovani che vi lavoravano c’erano futuri alti prelati come monsignor Viganò e monsignor Parolin.
Un ambiente molto formativo, pieno di contatti con il mondo e di opportunità formative. Quel contesto aveva, e ha, questo grande valore: il principio fondante di tutta l’attività del Nazareth è la parabola dei talenti, che anche per me è stata di grande insegnamento.

Quale?
Tutti devono essere messi in condizione di poter realizzare i propri talenti, a prescindere dalla loro condizione sociale ed economica.

In questa lezione c’è anche qualcosa del futuro «avvocato del popolo»?
Sì. Io mi considero prestato a tempo per questo lavoro. E anche quando sono al tavolo di Bruxelles, penso che devo difendere il mio mandato.

Il suo amico d’infanzia Antonio Placentino ha detto che lei giocava col numero 10 e che a scuola aveva tutti 10.
(Altro sorriso). Se stiamo ai numeri mi piaceva anche la maglia da centravanti, quella da «falso nueve».

Era un centrocampista con vocazione offensiva.
Mi piace segnare qualche gol, sono uno che vede la porta. E mi piace far giocare gli altri, che, come sa chi conosce il calcio, è la soddisfazione più grande in una squadra.

Il bilancio definitivo che lei fa dopo questo braccio di ferro con l’Europa?
Non ci siamo sottomessi. E abbiamo posto le basi per crescere. Pensi che tutti i conti sono parametrati con lo spread a 279. Il che vuol dire che ogni punto che scende, liberiamo risorse utili al Paese.

Lei si sentiva vincolato?
Sì, ma solo dai nostri impegni presi con gli elettori. Non ho mai dubitato che potessero partire le misure annunciate.

E poteva accadere?
A un certo punto, quanto questo ci è stato esplicitamente proposto su reddito e pensioni, ho detto: «Non lascerò sul tavolo un solo euro». Not any euro.

Però avete dovuto accettare nuove clausole di salvaguardia, e tante limature anche sugli investimenti.
Attenzione: abbiamo anche recuperato uno 0,2 per cento di flessibiità per gli investimenti su messa in sicurezza del territorio e infrastrutture. Sono quasi due miliardi.

Vuole consegnare una visione idilliaca dell’accordo?
No. Non mi sono mai sentito sul banco degli imputati, ma non si può negare che ci sia stato un momento in cui eravamo accerchiati.

In Commissione c’era stato anche voto unanime contrario alle richieste dell’Italia.
Ho lavorato molto a livello di rapporti personali. Ho chiamato tutti. Ho fatto attività di persuasione perché ero sicuro delle nostre ragioni. Avevamo un disegno riformatore e dovevamo comunicarlo.

Pensa davvero di esserci riuscito?
Sì. So che è stata una soluzione di compromesso, ma sono molto sereno perché so che era la migliore possibile. n

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Luca Telese