Antonio Ingroia
ANSA/FABIO CAMPANA
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Ingroia: "Sulla superprocura aveva ragione Falcone, non io"

L’ex pm siciliano insiste: vuole restare magistrato, ma in una sede a lui gradita. E ammette un solo errore, sull’eroe dell’antimafia

Mi rilassa, nel caso le domande non le piacciano, che non possa spiccarmi un mandato di cattura.
Mai fidarsi, potrei chiedere a un amico.

Fra i magistrati sono rimasti in pochi.
Sembra anche a me.

Farà il magistrato o il politico?
Sono in transizione precaria. Tra l’altro, quella di politico non la considero una professione.

E fa male, vede poi cosa succede?
Diciamo che sono un magistrato in attesa di collocazione.

Sempre meglio che in attesa di giudizio.
Le piacerebbe di più? Devo deluderla. E confermo che l’idea di politico professionale mi ripugna.

Andiamo, dottor Ingroia, la campagna elettorale è finita: male, ma è finita. Mettiamo da parte la demagogia.
Le assicuro: non mi sono candidato con lo  spirito di chi concepisce di restare in politica per il resto dei suoi giorni.

Stesse parole di Antonio Di Pietro vent’anni fa; adesso è inconsolabile.
Posso concedere questo: col tempo, magari, avrei perfino potuto cascarci. Dico forse, non voglio escluderlo in assoluto perché niente è per sempre.

Lei non è tipo cui piacciano le verità assolute.
Già.

Comunque, gli elettori hanno accantonato il rischio.
Che non vuol dire avermi fatto smettere con la politica.

Quando mai lei ha smesso di fare politica?
Battuta scontata.

Insomma, quando deciderà?
Questione di settimane, c’è un iter avviato  sia da me sia dal Consiglio superiore della magistratura, su cui non abbiamo ancora trovato un punto d’incontro.

Non c’è nessun punto d’incontro da trovare. La legge dice Aosta, il plenum ha deciso Aosta, lei non vuole sottostare né alla legge né al plenum del Csm.
Sono convinto che il Csm avesse altre possibilità di scelta, pur togliendomi ovviamente dagli incarichi in prima linea.

In un primo tempo ha convenuto lei stesso che Aosta era inevitabile, dopo due giorni ha denunciato un’ingiustizia.
Vero. Ma ho avuto netta la sensazione che sbattendomi ad Aosta si scegliesse di non rispettare il mio bagaglio professionale.

Nel frattempo era intervenuto il governatore Rosario Crocetta con la brillante proposta di farle fare l’esattore delle tasse siciliane.
In un ente con un passato mafioso e tuttora molto sospettato di imbrogli, mi sembrava di poter dare un contributo. E che il Consiglio potesse concedere a me l’incarico amministrativo che aveva già concesso a molti altri magistrati. Sottolineo molti.

Esattore senza dimettersi da magistrato.
Certo.

Si rende conto, dottor Ingroia?
Di cosa?

Ricorda quando si minacciava qualcuno, «ti  mando la Finanza»? La prima cartella delle tasse spedita da lei a un avversario politico avrebbe fatto urlare alla persecuzione.
Fatto sta che il Csm ha detto no.

E lei l’ha presa come una ritorsione.
Mi ha amareggiato.

Perché l’hanno fatto?
Non so, non sono abituato a fare il processo alle intenzioni.

Questa poi...
Questa poi cosa?

Il dottor Ingroia non sarebbe abituato a fare  il processo alle intenzioni?
Qualcuno può pensarlo, ma i miei processi  sono sempre stati ai comportamenti. Certo  poi, processando i comportamenti, si deve tener presente l’intenzione che li ha indotti. Però il Csm, oltre all’osservanza formale, severa  e pignola della legge, aveva alternative che non ha voluto prendere in considerazione.

Per esempio?
Mandarmi in uffici giudiziari che non hanno competenza territoriale.

Per esempio?
La Procura nazionale antimafia, come sostituto.

Che fa, scherza?
Oppure al Massimale della Cassazione, a Roma: non un gran premio.

Chiamiamola una soluzione all’italiana.
Forse. Ma anche Aosta è un po’ all’italiana.

In che senso?
Quando il consigliere conservatore Antonello Racanelli ha detto che si adottava quella soluzione perché il processo Stato-mafia aveva toccato un nervo scoperto interno alla magistratura, il consigliere progressista Roberto Rossi ha talmente strepitato da indurre Racanelli a convincersi che la soluzione Aosta era proprio figlia di quel nervo scoperto.

Devo ricordarle che da quell’evanescente processo lei è scappato, dottore.
Falso. Io ho compiuto tutti gli atti per arrivare  al dibattimento.

Guatemala, esotico Guatemala.
Ci sono andato dopo aver esaurito il mio compito.

Guatemala, tradito Guatemala... Aveva anche lì esaurito il suo compito?
Ho lasciato il Guatemala dopo aver avvisato i responsabili e aver concordato con loro il mio ritorno in Italia per candidarmi.

Magra consolazione formale. Dica, invece: perché non si è dimesso da magistrato come ha fatto il suo collega Pietro Grasso?
Per chi si trova in età pensionabile è più facile. Per chi si candida sotto le bandiere di un  partito già forte è ancora più facile. Per chi  può disporre di un seggio sicuro in partenza  diventa estremamente più facile. Quella strada, che mi venne proposta molte volte e da molte parti, a me non interessava.

Al dunque: Ingroia bocciato come esattore e Grasso candidato perfino al Quirinale. Lei dev’essere infuriato come un toro.
La vita è fatta di tante svolte e di imprevisti.

Aspetta il prossimo turno?
Diciamo che devo aspettare per forza.

Ha scritto il sicilianissimo Pietrangelo Buttafuoco  che il metodo di Grasso è quello dell’«annacata»: massimo movimento con  minimo spostamento.
Citerò Marcello Dell’Utri. Mi raccontò che  Grasso, quando giocava nella sua squadra di calcio, era l’unico che finiva la partita coi  pantaloncini bianchi immacolati.

Lei se li sporca.
Se ci credo, tendo a buttarmi nella mischia anche a costo di farmi male.

Diciamo meglio, anche a costo di far male a Dell’Utri.
Lasciamo stare.

Sì, è meglio. Paolo Borsellino la chiamava l’«immiruteddu comunista», il gobbetto comunista.
Non lo sapevo.

Perché vi siete intestati le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
Intestati in che senso?

Avete rubato loro l’anima e messo il loro nome sul vostro campanello.
Sono stati i maestri della lotta alla mafia.

Vero, ma voi li avete raccontati in modo falso  e ne avete strumentalizzato la memoria.
Cosa sta dicendo?

Che Falcone, per esempio (e carta canta), era favorevole all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e alla separazione delle carriere tra pm e giudice. Ma l’antimafia  ufficiale, dalla «Repubblica» in giù, l’ha  nascosto e avete trattato come amici della mafia chi sosteneva quelle stesse idee. Non è arrivato il momento di chiedere scusa?
Bisogna distinguere. So benissimo che a un certo punto Falcone ha modificato le sue convinzioni.

A un certo punto quando?
Verso la fine degli anni Ottanta.

Non è vero, molto prima.
Così come so benissimo che a un certo punto Falcone e Borsellino hanno assunto posizioni divergenti.

Nel senso che?
Borsellino era molto più inflessibile sui temi che lei ha appena nominato. Tanto è vero che firmò appelli in senso contrario con Gian Carlo Caselli, Piero Vigna, Marcello Maddalena e molti altri.

Lei dice che alla fine degli anni Ottanta Falcone mutò opinione perché voleva andare a Roma al ministero, al traino dei socialisti, e s’adattò a diventare meno inflessibile?
Assolutamente no.

L’ha appena insinuato.
Ho detto che i firmatari di quell’appello erano gelosissimi dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Mentre Falcone meno...
No: Falcone, affascinato dal modello americano, aveva una concezione più accentratrice. Considerava la magistratura troppo conservatrice. In perfetta buona fede, intendiamoci, e me ne parlò quando ancora ero giovane uditore giudiziario. Ma non mi convinse. Come non convinse Borsellino, che mi parlava di lui con enorme affetto, eppure in dissenso.

Forse questo non doveva far diventare legittima  l’accusa a Falcone di nascondere i fascicoli nei cassetti. Salvo appropriarsi  del suo nome da morto, come supereroe.
Devo dire, col senno di poi, che su alcune  questioni di principio no, ma sul suo trasferimento  romano, sulla superprocura e molto altro, l’ostilità di noi palermitani a Falcone fu eccessiva: lui aveva ragione e noi torto.

Sta dicendo che la compattezza Falcone-Borsellino-pool di Palermo-Caselli, con cui ci si è coperti per vent’anni, era una bufala utile alla battaglia.
Sto dicendo che esistevano differenze di cui oggi si può parlare con più serenità.

Forse perché lei ha perso.
Forse perché abbiamo perso occasioni di confronto nel passato.

E che ci dovrebbe essere un aeroporto Falcone e un aeroporto Borsellino.
Questa è un’estremizzazione sciocca.

E che Falcone e Borsellino, uno contro l’obbligatorietà  dell’azione penale e l’altro pro, uno per la separazione delle carriere l’altro no, non sono eroi di fazione ma del Paese.
Questo è vero.

Comunque ora il suo problema, Aosta a parte, è che il buon Dio la guardi dagli ex amici. Oltre che dall’Associazione magistrati.
E anche questo del tutto non lo nego.

Un’ultima curiosità: pensava davvero di poter vincere le elezioni con Sandro Ruotolo in lista?
Non tocchi il mio amico.

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Andrea Marcenaro