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India-Pakistan: le colpe del maharaja e degli indipendentisti del Kashmir

La regione contesa tra le due potenze nucleari è una polveriera pronta a esplodere, ma la miccia è stata accesa dall’uccisione di Burhan Wani, giovane attivista kashmiro

Il premier indiano Narendra Modi doveva andare il prossimo novembre in Pakistan per un summit sulla questione regionale del Kashmir, dopo che già lo scorso dicembre era stato ospitato dal suo omologo pakistano, Nawaz Sharif.

Ma questa cortesia istituzionale potrebbe non ripetersi dopo i fatti di questa settimana, dopo cioè che le forze armate indiane hanno attaccato un villaggio del Kashmir intorno alla “Linea di Controllo”, ovvero il confine non ufficiale e mai riconosciuto dalle parti che separa il Kashmir indiano dal Kashmir pakistano.

Un vulnus creatosi nel dopoguerra con la fine della colonizzazione inglese in India.

L’incursione è avvenuta in risposta all’assalto di un commando di miliziani "non meglio identificati" ma provenienti dal Pakistan, che il 17 settembre scorso ha bruciato vivo un intero plotone di soldati indiani.

Modi aveva stigmatizzato il fatto come un “attacco terroristico codardo e spregevole che sarà vendicato”.

Da qui, l’incursione aerea e terrestre del 29 settembre, che ha portato l’esercito di New Delhi pericolosamente oltre la linea di confine.

Per capire il livello di allerta, il governo indiano il 29 settembre ha ordinato anche l’evacuazione precauzionale di alcuni villaggi del Punjab, sul confine con il Pakistan.




Le ragioni storiche del conflitto
E pensare che la disputa territoriale tra India e Pakistan intorno al Kashmir è tutta colpa di un maharaja: Hari Singh fu l’ultimo maharaja dello stato di Jammu e Kashmir e, quando nel 1947 i britannici ammainarono le bandiere in previsione della spartizione del territorio indiano (da cui originerà anche il Pakistan moderno), ebbe in pugno l’occasione storica di poter scegliere se aderire all'India, al Pakistan o rimanere indipendente.

Singh era incline all’indipendenza di Jammu e Kashmir ma soprattutto non voleva che quel territorio, sebbene a maggioranza musulmana, confluisse o restasse nell’orbita del neonato Pakistan, verso il quale si stavano riversando i sostenitori della Lega Musulmana panindiana.

Questo attrito provocò una violenta rivolta popolare e l’ammutinamento d’interi reggimenti dell’esercito. Per ovviare ai tumulti, Singh si rivolse allora all’India, ottenendone l’aiuto in cambio dell’accettazione da parte del maharaja di consegnare a Dehli lo stato di Jammu e Kashmir.

Questa scelta originò il primo conflitto indo-pakistano.

Una successiva risoluzione delle Nazioni Unite del 1948, che chiedeva di indire un referendum che permettesse ai kashmiri di scegliere da quale parte stare, rimase lettera morta.

Da allora, gli scontri tra India e Pakistan nell’intera regione che abbraccia e comprende anche il ghiacciaio del Siachen (dove le dispute “alpiniste” non sono meno pericolose), sono diventati eventi ciclici e costanti.

Attualmente, le regioni di Jammu e Kashmir e Siachen sono sotto giurisdizione indiana, mentre il Gilgit Baltistan (le “northern areas”) sono amministrate dal Pakistan.

Inoltre, l’India rivendica anche l’Aksai Chin, un’area sotto il controllo della Cina.

Una polveriera pronta a esplodere
Le attuali tensioni tra i due paesi - vale qui la pena di sottolineare che entrambi sono potenze nucleari - sono frutto anche dell’involuzione politica nella regione, dove le nuove generazioni si stanno dimostrando sempre più insofferenti al destino incerto della propria terra.

I più violenti scontri si sono registrati lo scorso mese di luglio a Uri, nel Kashmir sotto amministrazione indiana, dopo che le forze di sicurezza indiane hanno ucciso Burhan Wani, un giovane attivista di appena 22 anni che aveva chiamato all’appello il popolo per promuovere l’indipendenza del Kashmir. Represse con brutalità, le proteste di Uri hanno lasciato settanta morti per le strade. In precedenza, era accaduto qualcosa di simile con le sollevazioni popolari del 2008 e del 2010, quando si contarono circa duecento morti.

Ma, in fin dei conti, la vera domanda è: cosa vogliono davvero i kashmiri?

Il problema, per il momento, è senza soluzione. Secondo gli analisti, la mancanza d’impegno politico per risolvere il conflitto nel Kashmir sta disegnando un nuovo discorso politico in questa regione, che a sua volta sta creando una crescente adesione da parte dei più giovani a formazioni politiche militanti.

Giorno dopo giorno, questi movimenti indipendentisti guadagnano legittimità e consenso all’ombra delle istituzioni indiane che, sinora, hanno semplicemente ignorato o finto che simili problemi non esistano.

Se Burhan Wani diventerà un martire della lotta per l’indipendenza del Kashmir è presto per dirlo, ma la violenta reazione indiana di settembre autorizza a pensare che, più che uno scontro muscolare tra gli eserciti indiano e pakistano, il problema per i due contendenti consista piuttosto nella gestione di queste nuove forme di indipendentismo che si stanno formando nel vuoto politico generale e che stanno organizzandosi in formazioni paramilitari.

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