Perché Dell'Utri non doveva entrare nel processo sulla "trattativa" Stato-mafia
ANSA/ANGELO CARCONI
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Perché Dell'Utri non doveva entrare nel processo sulla "trattativa" Stato-mafia

L'ex senatore era stato già processato (e assolto) nove anni fa per gli stessi fatti: i suoi avvocati si rivolgono alla Corte di Strasburgo

Marcello Dell’Utri non poteva né doveva essere coinvolto nel processo palermitano sulla Trattativa tra Stato e mafia. Perché? Perché lo stabilisce la legge. E in particolare l'articolo 649 del Codice di procedura penale, dove si prescrive che “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”.
È un principio fondamentale del diritto che risale al tempo degli antichi romani, tanto che ancora oggi viene definito con un nome latino: “ne bis in idem”, cioè “non due volte per la medesima cosa”. Il Codice specifica che il secondo coinvolgimento giudiziario non deve nemmeno iniziare: “Se viene di nuovo iniziato un procedimento penale” continua l’articolo 649 “il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere».
La logica della norma è chiara: si vuole sottrarre ogni cittadino alla possibilità di essere giudicato due o più volte per lo stesso fatto, e proteggerlo quindi dall’arbitrio di un qualsiasi tribunale. Questo, invece, è esattamente quanto gli avvocati di Dell’Utri sono convinti stia accadendo al loro cliente, tanto da aver fatto del “ne bis in idem” un elemento centrale della sua difesa nel processo Trattativa. Per questo, già fin dall’avvio del primo grado, nel marzo 2013, i legali dell’ex senatore di Forza Italia, prima Giuseppe Di Peri e poi Francesco Centonze, hanno sempre cercato di opporsi al coinvolgimento del loro assistito in questo secondo procedimento, che al contrario è andato avanti e si è concluso per lui nell’aprile 2018 (vedere la cronologia) con una condanna a 12 anni.
All’articolo 649 gli avvocati di Dell’Utri si sono appellati anche nel secondo grado. E la difesa è così certa dell’illegittimità del processo che ha presentato anche un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, lamentando la grave violazione dei diritti di Dell’Utri. Panorama.it ha potuto leggere in esclusiva quel documento, firmato dai docenti universitari Andrea Saccucci e da Bruno Nascimbene, oltre che da Centonze. Le loro argomentazioni, va detto, sono molto convincenti.
Che cosa sostiene, la difesa dell’ex senatore? Che Dell’Utri oggi viene processato davanti alla Corte d’assise di Palermo per gli stessi fatti per i quali è già stato giudicato in un altro processo palermitano: quello che si è concluso il 9 maggio 2014 con una condanna definitiva a sette anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il punto fondamentale della difesa è che il 29 giugno 2010, alla fine del processo d’appello, per parte di quell’accusa Dell’Utri è stato anche assolto: nove anni fa il presidente della giuria, Claudio Dall’acqua, scriveva nelle motivazioni della sentenza che “mancano per il periodo successivo al 1992 prove inequivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Dell’Utri, aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento di Cosa nostra”. Dell’Acqua concludeva che Dell’Utri “va assolto relativamente alle condotte contestate in epoca successiva al 1992, perché il fatto non sussiste”.
Dato che la Cassazione su questo specifico punto ha poi respinto il ricorso della Procura generale, per Dell’Utri l’assoluzione del 29 giugno 2010 è definitiva. Quindi tutti i fatti dopo il 1992 non hanno più alcun fondamento giuridico: non hanno fondamento, per esempio, né i presunti incontri di Dell’Utri con il mafioso Vittorio Mangano tra il giugno e il luglio 1994, a cavallo della formazione del primo governo presieduto da Silvio Berlusconi, che la Corte d’appello ha ritenuto “non provati”, né l’esistenza di richieste di carattere giudiziario o politico avanzate in quel periodo da Cosa nostra.
Proprio i fatti alla base di questa parte del primo processo, però, sono riemersi nel nuovo procedimento palermitano sulla presunta Trattativa Stato-mafia, partito nel 2013. In questo secondo processo, è vero, è stato modificato il reato contestato a Dell’Utri: non si tratta più del concorso esterno mafioso, ma della minaccia a corpo politico dello Stato. Per questo, i giudici della Corte d’assise hanno già respinto le eccezioni della difesa di Dell’Utri nelle motivazioni della condanna di primo grado, sostenendo che una cosa è mediare tra i boss e l'imprenditore Berlusconi (il fatto vagliato dal primo processo), e un'altra cosa è trasmettere le richieste della mafia a Berlusconi divenuto premier.
Ma i legali di Dell’Utri protestano che, al contrario, i giudici del processo Trattativa stanno valutando proprio un fatto già giudicato, cioè i presunti rapporti tra l’ex senatore e Mangano, individuati temporalmente nel 1994, cioè fatti per i quali lo stesso imputato è stato assolto definitivamente nove anni fa.
“La Corte d’assise di Palermo” spiega Andrea Saccucci, tra i massimi esperti europei nella tutela dei diritti umani, “nega che ci sia una piena sovrapposizione tra le accuse nei due processi, sostenendo si tratti di titoli di reato fondati su elementi giuridici diversi”. Insomma, secondo i giudici del processo Trattativa, la minaccia sarebbe l’elemento che differenzia la condotta dell’imputato rispetto al primo processo, e quindi supererebbe l’eccezione del “ne bis in idem”.
Va ricordato però che l’articolo 649 del Codice di procedura penale stabilisce che nessuno possa essere processato due volte per lo stesso fatto, neppure “se questo viene diversamente considerato per il titolo (cioè il reato, ndr), per il grado (cioè la gravità del reato, ndr) o per le circostante (cioè gli elementi accessori, per esempio le attenuanti o le aggravanti, ndr)”.
Anche alla luce di questa parte della norma, il professor Saccucci contesta l’assunto della sentenza di primo grado nel processo Trattativa: “Questa sentenza ha ritenuto che le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia fornissero la prova certa di incontri avvenuti tra Dell’Utri e Mangano a scopo intimidatorio. Ma quelle stesse dichiarazioni e quegli stessi fatti sono proprio quelli che erano già stati acquisiti e valutati nel precedente processo per concorso esterno mafioso”.
In quegli incontri del 1994, Mangano avrebbe sollecitato l’allora senatore a varare norme “favorevoli a Cosa nostra”, a partire dall’alleggerimento del regime carcerario del 41 bis che peraltro mai il governo Berlusconi ha stabilito. Insensibile al fatto che i giudici del primo processo avessero stabilito che quegli incontri non erano mai stati provati, la corte del processo Trattativa ha cercato di confermarne l’esistenza utilizzando le parole degli stessi collaboratori di giustizia. E ha poi negato il “ne bis in idem” sostenendo che nel primo procedimento non si era mai fatto cenno all’ipotesi che Mangano avesse consegnato a Dell’Utri una minaccia da trasmettere al governo Berlusconi.
Saccucci sostiene che l’errore della sentenza del processo Trattativa stia proprio nell’aver stabilito che all’unicità di un determinato fatto storico (gli incontri) può fare riscontro una pluralità di eventi giuridici diversi tra loro (nove anni fa il patto politico-mafioso e oggi la minaccia). “Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo” sostiene Saccucci “ciò che conta non è l’idem legale, ma quello storico dei fatti”.
In effetti, la stessa Corte europea ha già condannato altri Stati per la violazione del “ne bis in idem”: è accaduto anche all’Italia, nel 2014. Si vedrà che cosa accadrà con questo ricorso su Dell’Utri. Intanto il ricorso ha già superato il filtro preliminare della Corte ed è stato registrato lo scorso luglio, con la promessa di essere portato “all’esame della Corte quanto prima”. Saccucci è ottimista, anche se teme che la decisione finale dei giudici di Strasburgo non potrà arrivare prima della fine dell’appello del processo Trattativa.
E pensare che l’articolo 649, in caso di “ne bis in idem”, stabilisce che il secondo processo non dovrebbe nemmeno iniziare…

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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