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Il voto operaio che ha messo le ali a Donald Trump

Dal voto dei colletti blu al consenso presso la impaurita classe media bianca: il blocco popolare e sociale aggregato dal tycoon ha fatto la differenza

Tra le ragioni che spiegano la vittoria di Donald Trumpin America ce n'è una che è stata clamorosamente sottovalutata da tutti i sondaggisti americani: il carattere operaio e bianco del voto al tycoon newyorchese, soprattutto in quelle aree  industriali del Rust Belt sulle quali più pesante è stato l'impatto dei processi di delocalizzazione che il nuovo presidente ha promesso di fermare.

Abituati come erano a sovrastimare il voto di genere e quello espresso dalle minoranze etniche americane, gli istituti di ricerca e anche gli analisti non hanno saputo vedere il  blocco sociale che stava aggregando sotto i loro occhi il nuovo presidente americano: dalla working class industriale che teme di perdere il posto di lavoro (alla quale Trump ha promesso  di abrogare i trattati di libero scambio e i vincoli imposti dal protocollo di Kyoto) alla middle class bianca e impaurita che  ha sempre considerato il Presidente nero, senza che ce ne fossimo accorti, come un usurpatore, un intruso che per otto anni ha negato i fondamenti dello spirito americano.

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Il voto a Trump è stato anche e soprattutto, un po' come è accaduto con il referendum sulla Brexit, un voto di classe per punire l'establishment, gli approfittatori di Wall Street, le grandi banche, gli attori di Hollywood e i ceti intellettuali di cui Hillary Clinton è stata considerata - a torto e spesso a ragione - la portabandiera.

Non è il voto in Florida, dove i sondaggi segnalavano comunque una grande incertezza, che stupisce in questa strana tornata elettorale, bensì il voto in quegli Stati industriali della regione dei Grandi Laghi come il Michigan, la Pennsylvania, l'Ohio, dove, non  a caso, sull'altro fronte, e qualche mese prima, un candidato di sinistra radicale (ma bianco) come Bernie Sanders era risultato particolarmente competitivo.

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A posteriori potremmo dire che il grande errore dei democratici, scegliendo Hillary, è stato quello di non aver visto la marea montante che stava crescendo nella pancia del Paese, i timori sociali crescenti contro la globalizzazione, contro i grandi finanzieri, contro quelli di Washington, qualsiasi cosa esso significhi, ai quali però Trump ha saputo fornire risposte, semplicistiche quanto si vuole, ma comunque opposte ai balbettii, alle pensose prospettive e al continuismo offerti all'elettorato dall'ex segretario di Stato.

Trump è stato questa volta, come Obama nel 2008, il candidato del Change. Che poi sia un cambiamento, quello prospettato dal nuovo presidente, opposto come segno a quello - gravido di speranze - di Obama non conta. Le elezioni si vincono anche coagulando il voto contro. E Trump ha saputo farlo, mettendo insieme una coalizione popolare che andava dalla working class bianca, in prevalenza maschile e poco istruita, ai ceti rurali dell'America profonda, da sempre diffidenti verso quello che Washington rappresenta.   

Sbaglia chi si stupisce: il blocco sociale che ha saputo aggregare Trump, facendo leva anche sul timore di nuove ondate migratorie, è per molti aspetti lo stesso blocco sociale che stanno  costruendo le forze populiste in Europa, da Farage a Grillo fino a Marine Le Pen, capaci di raccogliere quel voto ex operaio e di protesta  per quasi un secolo egemonizzato dagli storici partiti della sinistra europea, diventati oggi, nella percezione diffusa, come i partiti della conservazione, dell'establishment, dei cosiddetti poteri forti, delle noiose élite intellettuali e urbanizzate

Non conta che Trump sia un miliardario che non si può certo dire estraneo a quel sistema che ha promesso, con furbizia, di combattere. Non conta nemmeno troppo quello che lui pensi, o dica di pensare, dei matrimoni gay, dell'aborto, dei diritti civili, tutti temi sui quali la sua tardiva adesione ai valori del tradizionalismo repubblicano è apparsa più opportunistica che realmente convinta.

L'anima più religiosa e ultratradizionalista del partito repubblicano che un tempo ingrossava le fila del Tea Party lo ha sempre considerato come un corpo estraneo, un miliardario divorziato e paccaminoso. Ma alla fine - come emerge dal voto negli Stati più legati ai valori tradizionali -  quell'anima ultraconservatrice lo ha  votato comunque, come avrebbe fatto anche con Jeb Bush o Ted Cruz, in odio alla signora Clinton e ai valori progressisti e urbani del Partito democratico, non a caso molto forte nelle grandi città della West e della East Cost.

Conta di più, per spiegare una vittoria clamorosa e inattesa, il voto nuovo dei colletti blu bianchi meno istruiti che si è riversato questa volta in massa sul Partito repubblicano, trasformatosi grazie a Trump non più e non solo il partito dei ricchi, dei benestanti, dei conservatori, come era percepito negli anni di Bush. È stato anche questo il segreto del successo della sua straordinaria campagna elettorale.




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Chip Somodevilla/Getty Images
Il presidente americano Donald Trump - 9 novembre 2016

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Paolo Papi