Il nostro terrore quotidiano
La prova, cinica ma vera, del fatto che nulla di più scontato ci fosse in questi attentati l'hanno data le Borse: nessun crollo, nessuno sbandamento
Nessuno, adesso, dica che non se l'aspettava. La carneficina di Bruxelles era il più prevedibile degli attentati. A cominciare dai luoghi scelti dai terroristi, aeroporto e stazioni della metropolitana: sono obiettivi così banali, dal punto di vista della prevenzione, da far rimanere interdetto qualsiasi cittadino. Quante volte avete sentito annunciare, in occasione di allarmi, che "le autorità hanno rafforzato i controlli in aeroporti, stazioni ferroviarie e della metropolitana"? Quante volte avete ascoltato ministri e funzionari dell'ordine pubblico annunciare che in quei luoghi era stato innalzato "al grado più elevato il livello di allerta"?
Eppure i terroristi hanno colpito esattamente lì e senza ricorrere ad alcun attacco sofisticato: sono arrivati indisturbati, come normali passeggeri, spingendo un carrello con gli esplosivi nel cuore delle affollatissime strutture e si sono fatti saltare in aria. Come sappiamo, questa ecatombe della polizia di prevenzione fa il paio con l'immenso patrimonio informativo raccolto dopo le stragi di Parigi del 13 novembre 2015 (ma poi mal utilizzato o per nulla sfruttato) e con l'incapacità di leggere gli infiniti indizi e le numerosissime tracce lasciate dai terroristi in questi mesi; tracce così copiose da non avere pari financo nelle favole di Pollicino o Hansel e Gretel.
In una parola, va preso atto che in Belgio la sicurezza è nelle mani di un branco di inetti. La prova, cinica ma vera, del fatto che nulla di più scontato ci fosse in questi attentati l'hanno data le Borse. A parte qualche compagnia aerea, i listini di tutta Europa non hanno fatto un plissé: nessun crollo, nessuno sbandamento. Per i mercati finanziari le esplosioni di Bruxelles non sono state una notizia in grado di condizionare le quotazioni, a differenza di quanto era accaduto in passato in occasioni tragicamente uguali. Che siano morte dieci o 50 persone, che un gruppo di fanatici tenga in scacco non più e non solo una nazione ma un intero continente appartiene al novero di ciò che può accadere: è normale.
Ecco, questa rassegnazione a convivere con il nostro terrore quotidiano ci consegna la misura del fallimento. Che è il fallimento dell'Europa dei summit inconcludenti, della mancanza di un piano condiviso e operativo sulla gestione delle frontiere e dell'ingresso degli extracomunitari o di una strategia di intelligence realmente connessa tra i vari Paesi. Per non parlare delle beghe da basso impero che siamo costretti a vivere in Italia, dove il premier insiste per piazzare un suo amichetto senza arte né parte a capo della cybersicurezza (presidente Mattarella, la prego, veda di far ragionare lei l'arrogantello di Rignano).
Che facciamo adesso? Parte il festival della retorica e del "siamo tutti belgi" dopo essere stati "tutti Charlie" ai tempi della strage di Charlie Hebdo e "tutti parigini"; dai social network zampillano lacrime digitali sotto forma di "emoticon". In televisione il dotto di turno inviterà a non confondere l'Islam con questi macellai. Ovviamente disegniamo con le luci la bandiera del Belgio sulla Tour Eiffel, sul Campidoglio a Roma o a Palazzo della Signoria a Firenze, si spengano i riflettori del Colosseo e - mi raccomando - prepariamoci a una bella marcia a Bruxelles con i capi di Stato dell'Unione in prima fila, impegnatissimi ad andare a braccetto (il telecronista ci informerà che per l'occasione "Bruxelles è blindata e sono state adottate eccezionali misure di sicurezza"). Da Molenbeek s'ode una grassa, grassissima risata.