Il governatore Crocetta e il modello Sicilia? No, bluff
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Il governatore Crocetta e il modello Sicilia? No, bluff

Il governatore Crocetta puntella la sua giunta con i 15 eletti grillini. Ora lancia anche un «pacchetto tsunami» di riforme per scimmiottare Beppe Grillo e per legarlo a sé. Ma finora la regione è stata immobile, gravata da 6 miliardi di debiti. E l’intesa non ha prodotto alcun reale cambiamento.

Riusciranno i nostri eroi a replicare in continente le magnifiche sorti e progressive cui dicono sia destinata la Trinacria? In altre parole: ce la faranno Pier Luigi Bersani e Beppe Grillo a replicare a Roma il decantato «modello Sicilia», che a Palermo avviluppa il Pd al Movimento 5 stelle? L’idea è stata lanciata più volte dai parlamentari più vicini al segretario del Pd, come la deputata Alessandra Moretti: proprio come da poco più di un mese accade in Sicilia, anche a Roma l’appoggio al governo del Pd (tutto ancora da venire) potrebbe ottenere l’appoggio esterno dei grillini. «Uno schema meraviglioso» l’ha definito l’ex comico genovese. Nel dibattito si è insinuato il presidente siciliano, Rosario Crocetta: «Il modello siciliano funziona benissimo» ha assicurato. Puntellando poi l’enunciato con un crescendo rossiniano di dichiarazioni, fino all’esplosione finale: «Sto facendo la più grande rivoluzione della storia d’Italia». Il gusto dell’iperbole, del resto, non è mai mancato al governatore.

Quando però ci si sposta nel concreto, le prospettive cambiano. In Sicilia, dove Crocetta è al governo dalla fine di ottobre, l’attività legislativa è stata modestissima. Il vecchio trasformismo dilaga. E perfino gli odiosi privilegi degli «onorevolini» più pagati d’Italia sono rimasti pressoché intatti. Il modello Sicilia, in realtà, è basato su una malferma e svogliata maggioranza di centrosinistra, formata da 46 consiglieri su 90. E dunque costretta a esaudire i desideri dei 15 eletti dei cinquestelle, pena l’ingovernabilità.

Un esempio è stata l’abolizione delle province, annunciata da Crocetta il 5 marzo 2013 in pompa magna. L’ipotesi è sostituire gli enti con consorzi di comuni. Il tema, caro ai cinquestelle, è stato circumnavigato dal governatore per mesi. L’8 novembre 2012 giurava: «Manterrò le province, ma svuoterò i costi». L’1 febbraio 2013 chiariva: «Per le province si voterà il 21 e 22 aprile di quest’anno». Il 7 febbraio azzardava: «Se le province restano, promuoviamo anche Gela», città in cui Crocetta è stato sindaco fino al 2009. Il 28 febbraio chiariva: «Per le province si voterà nella primavera 2014». Fino all’ennesimo colpo di scena: una repentina retromarcia.

«Rosario, devi essere coraggioso» pare lo abbia incalzato il portavoce siciliano dei cinquestelle, Giancarlo Cancelleri, prospettandogli ferro e fuoco in aula di fronte a nuovi indugi. Così il governatore, spalle al muro, ha preferito intestarsi l’iniziativa piuttosto che lasciare al movimento l’arma della propaganda. Del resto, ormai ama ripetere: «Sono più grillino dei grillini». Gli alleati però non hanno gradito: «Crocetta è ostaggio di una banda di matti» dice il senatore Gianpiero D’Alia, segretario regionale dell’Udc e promotore della candidatura del governatore. «Le province vanno soppresse, non rimpiazzate da organismi che rischiano di costare di più».

La strategia grillina era già stata rodata sul documento di programmazione economica e finanziaria (dpef), impantanato in aula per tre sedute mentre la Regione ha 6 miliardi di buco, proprio a causa dell’assenza dei consiglieri cinquestelle. In cambio del voto, il movimento chiedeva lo stop al Muos, il radar che la marina militare americana sta costruendo a Niscemi, vicino a Caltanissetta. «Il documento non è stato approvato per colpa dei bambini dell’asilo» era scoppiato Crocetta il 6 febbraio, riferendosi ai grillini. Che, incassata la revoca, hanno votato il dpef. A quel punto poco importava la scoperta che la competenza sul Muos non fosse regionale, ma nazionale: quel che conta è il «modello».

«I grillini sono ragazzi e volenterosi, ma devono smetterla di fare gli ultrà. È il momento di scendere in campo» sospira Antonello Cracolici, capocorrente dei deputati del Pd nell’assemblea siciliana, dal bar palermitano dove riceve gli elettori: «Stiamo vivendo nell’irrealtà, è una fase eterea. Un rapporto complesso tra forze politiche diventa un modello, da raccontare infarcendolo di stereotipi». Più prosaicamente? «Mi sono imposto di contare fino a 100 mila: sono già a 90 mila».

Antonio Venturino, il grillino nominato vicepresidente dell’assemblea regionale, riceve in un ridondante ufficio al primo piano del settecentesco Palazzo d’Orleans: «Mi hanno nominato solo perché non hanno trovato un accordo su un altro candidato» ammette. Venturino ha 48 anni, l’aspetto un po’ arruffato e l’aria divertita: «Ci guardano con sufficienza, dicono che siamo inesperti, però nei loro occhi si vede chiaramente: se la stanno facendo sotto».

Ma dell’esuberanza del M5s il centrosinistra non può fare a meno. Dopo la vittoria alle elezioni di ottobre contava 39 deputati su 90. In febbraio però è cominciata anche la transumanza dal centrodestra, con la nascita di un nuovo gruppo infarcito di trasfughi: i Democratici popolari e riformisti. Registi dell’operazione sono stati Crocetta e Salvatore Cardinale, già ministro delle Comunica zioni nel governo Prodi, deputato del Pd fino al 2008, quando sacrificò il suo scranno di Montecitorio in favore della ventottenne figliola Daniela, appena rieletta. Grazie a lui, e a sette cambi di casacca più tardi, il centrosinistra oggi può contare su 46 deputati. Un’esile maggioranza bisognosa del continuo puntello dei cinquestelle.

Il «modello Sicilia» fino a oggi ha prodotto appena cinque leggi: tre proroghe per i precari, una norma ponte sul sistema idrico e una «modifica in materia di gestione integrata dei rifiuti». Francesco Cascio, presidente uscente dell’assemblea regionale, dice: «Fino a oggi il lavoro in aula è stato scarsissimo: non abbiamo niente di cui discutere. Per adesso si tira a campare».

Il 5 marzo 2013 il governatore ha però annunciato un drastico cambio di rotta. Lanciato alla rincorsa del movimento di Grillo, alle elezioni politiche divenuto primo partito dell’isola, Crocetta ha annunciato un «pacchetto tsunami», mutuando dall’alleato persino l’immaginifica terminologia del suo tour elettorale. Il pacchetto di Crocetta prevede svolte copernicane in vari ambiti. Oltre all’abolizione delle province, scosse telluriche nella formazione (un imbuto dove ogni anno finiscono centinaia di milioni), negli enti pubblici e nelle partecipate. Crocetta lancia anche l’istituzione di un’alta corte in Sicilia, un sussidio minimo per le famiglie meno abbienti, l’abolizione degli istituti autonomi case popolari, il taglio dei consigli in alcuni enti.

Il governatore vuole perfino sfidare lo Stato sull’articolo 37 dello statuto, in base al quale spettano alla regione le tasse pagate dalle imprese con impianti in Sicilia, anche se hanno la sede legale altrove: porterebbe 1,5 miliardi d’imposte. Il costituzionalista messinese Antonio Saitta mette però le mani avanti: «La materia attiene allo Stato» dice «e la Consulta ha già dato torto all’ente locale». Tuttavia Crocetta non si ferma: lancia anche i Trinacria bond, buoni convertibili da 5 a 10 anni che dovrebbero servire anche a pagare i debiti (2 miliardi) con le imprese fornitrici della regione. Un tecnico come Giuseppe Romano, consulente finanziario indipendente, è scettico: «Così si crea debito su debito».

Il governatore intanto fa proclami: «Toglieremo i privilegi della casta per dare soldi ai poveri». A ben vedere, qualche consiglio su come sfoltire i borbonici vantaggi del parlamento siciliano si potrebbe azzardare. Crocetta potrebbe cominciare tagliando lo stipendio più alto fra i governatori. È il suo: quasi 20 mila euro lordi al mese. Poi potrebbe passare ai 90 consiglieri, altri 15 mila euro a testa. E potrebbe ispirarsi proprio ai grillini, visto che i 15 eletti del movimento si sono ridotti il compenso del 70 per cento.

Il presidente potrebbe poi continuare con la giunta: sono 12 assessori, tutti esterni, e alle casse siciliane costano 10 milioni a legislatura. Senza dimenticare i rimborsi ai gruppi. Nel bilancio 2013 incasseranno 7,2 milioni: poco meno di quanto Crocetta prevede di risparmiare con il proclamato taglio delle province.

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Antonio Rossitto