Il capolinea di Pier Ferdinando Casini
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Il capolinea di Pier Ferdinando Casini

Il leader Udc ha perso la guerra. Ma è ancora presto per sapere se la sua avventura è davvero finita

Si capirà in futuro se Pier Ferdinando Casini, dal 2008 a oggi, ha giocato una partita a poker troppo azzardata, tra bluff e rilanci, o se è stato anche sfortunato. Di sicuro, dopo le elezioni dello scorso febbraio, sta subendo le conseguenze di due tra le peggiori caratteristiche della politica italiana: l’ingratitudine e il cinismo.

Nessuno aveva immaginato per l’Udc il risultato sconfortante uscito dalle urne: appena l’1,7 per cento alla Camera con otto deputati e due seggi al Senato all’interno della lista Monti, uno dei quali è proprio quello di Casini. Nessuno l’aveva immaginato perché l’Italia resta una nazione in larga parte moderata e il fantomatico «centro» esiste, salvo essersi disperso in tanti partiti e partitini, oltre che nell’astensione dei delusi del Pdl. E resta il bacino di voti più importante verso il quale quasi tutti i partiti guardano con ingordigia. Eppure, l’ultimo erede della Democrazia cristiana non ce l’ha fatta.

57 anni compiuti lo scorso dicembre, bolognese di nascita e di accento, già braccio destro prima di Antonio Bisaglia e poi di Arnaldo Forlani nell’Italia che fu, Pier Ferdinando Casini è in Parlamento dal 1983, trent’anni fa. Il tornado di Mani pulite, l’arrivo di Silvio Berlusconi e l’introduzione del sistema maggioritario alle elezioni del 1994 sono state le cause delle divisioni della Dc, da cui derivarono il Partito popolare e, con Casini, il Ccd. Che poi si fuse nel 2002 con il Cdu di Rocco Buttiglione e la Democrazia europea di Sergio D’Antoni dando vita all’Udc. La fusione arrivò un anno e mezzo dopo l’elezione di Casini a presidente della Camera (maggio 2001), il punto più alto della sua carriera anche se, durante le trattative post elettorali, lui puntava in realtà al ministero degli Esteri e non fu facilissimo convincerlo che, in fondo, la terza carica dello Stato non era male.

Ma la vera svolta politica, la scommessa più azzardata, è datata 16 febbraio 2008 quando il giovane Pier annunciò che l’Udc si sarebbe presentata da sola alle imminenti elezioni politiche. Addio Silvio, addio Gianfranco. Perché anche con Fini, allora leader di An, i contrasti furono forti, salvo nasconderli in tempi recenti, durante la fugace vita del Terzo polo del quale faceva parte anche Francesco Rutelli. La scommessa di Casini fu audace perché mollare Berlusconi dopo cinque anni di governo e due di opposizione insieme poteva essere un salto nel buio. I risultati sembrarono dargli ragione: 5,6 per cento con 37 deputati e 6 senatori, di cui due arrivati subito dal Pd, e l’inizio della lunga marcia verso la conquista dei moderati, cioè dell’impero berlusconiano.

Pur essendo una scommessa meno audace di quella di Fini quando fondò Futuro e libertà dopo il memorabile «che fai, mi cacci?» rivolto a Berlusconi in una direzione nazionale del Pdl, Casini non ha ceduto alle lusinghe del Cavaliere.

Al di là delle profonde differenze caratteriali e di storia personale, Casini non si è mai fidato di Berlusconi perché non ha mai creduto a un suo vero passo indietro. Ecco, dunque, che quando nello scorso autunno il Cavaliere insisteva nel chiedergli di tornare nel centrodestra promettendo che non si sarebbe ricandidato a premier, Casini non si è mosso di un millimetro. Da un lato ha avuto ragione: Berlusconi ha bruciato Angelino Alfano candidato in pectore ed è stato poi protagonista di una grande rimonta elettorale; dall’altro ha fatto un’altra scommessa sbagliata. Che si chiama Mario Monti.

L’algido professore e neosenatore a vita, nonostante l’evidente freddezza e lontananza dagli umori della gente comune, era stato individuato non solo come il salvatore dell’economia italiana in un momento difficile, ma soprattutto come il leader che il mondo ci invidia. Casini si è giocato tutto, si è dissanguato di voti cedendo un copyright postdemocristiano a un Monti che, invece, ha portato i moderati a sbattere contro un muro. La differenza tra i due si è vista all’apertura delle urne: Casini ci ha messo la faccia, ammettendo in diretta tv la sconfitta; Monti ha invece giudicato soddisfacente il risultato mentre molti dei suoi si suicidavano dietro le quinte. Evidentemente i passi indietro dei vari Luca di Montezemolo, Andrea Riccardi, Corrado Passera e ancora prima Antonio Catricalà non avevano insegnato niente.

Nonostante tutto quello che aveva fatto per il premier uscente, esponendosi in ogni momento del governo della «strana maggioranza» e della campagna elettorale come un novello san Sebastiano, mercoledì 6 marzo Casini non è stato invitato alla riunione della lista Scelta civica. Morto, sepolto, dimenticato. E si è arrivati così all’imprevedibile: Monti che annuncia la nascita di una forza stabile, insomma di un suo partito, e Casini che non si presenta al consiglio nazionale dell’Udc di oggi, 7 marzo, scrivendo un’amara lettera nella quale afferma che «una stagione è chiusa», lasciando libertà di giudizio ai colleghi di partito sulle scelte fatte negli ultimi anni. Cioè, giudicatemi voi.

In un periodo in cui la parola rottamazione viene declinata in tanti modi diversi e spregiudicati, anche da chi non ha la minima idea di che cosa sia la politica e l’attività parlamentare, Casini meriterebbe rispetto. E solo più in là si potrà dire se Pier Ferdinando da Bologna avrà ancora un futuro. O se il suo è definitivamente dietro le spalle.

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Stefano Vespa