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Ho ucciso mio figlio ma voglio salvare quelli come lui

Nel 2007 Flavio Vescovini ha sparato a Gabriele, 29 anni, con problemi di equilibrio psichico e di droga. Condannato a 12 anni, oggi è agli arresti domiciliari in attesa della sentenza d'appello

Gli ha sparato 12 colpi di pistola al torace perché voleva che smettesse di bestemmiare. Non è stata l'omosessualità di suo figlio il problema, anche se in tanti, compreso Franco Grillini, presidente dell'Arcigay, lo hanno gridato. Semplicemente quella domenica è stato lui, Flavio Vescovini, a perdere il senno, per una volta più di Gabriele, 29 anni, tanto malato di mente, secondo il padre, da fare paura a tutta la casa.

In quei minuti l'esasperazione ha sopraffatto l'amore e l'angelo custode è diventato assassino. "Come un robot, senza accorgermi di soffrire, ho materializzato nel mio gesto folle contro di lui tutta la violenza subita a causa della sua malattia" racconta il pensionato dallo sguardo oggi vitreo, cui è stato diagnosticato uno stato depressivo risalente all'adolescenza. Gli psicologi, dopo anni dietro il figlio, oggi si occupano di lui, padre assassino.

"Almeno adesso siete liberi voi" aveva detto senza versare una lacrima alla moglie Ausilia e agli altri due figli, Fabrizio e Marina, quella domenica pomeriggio del 25 novembre 2007, prima che la polizia lo portasse via. "Non significa che fosse un gesto premeditato. La pistola ce l'ho da trent'anni e comunque per eliminare mio figlio dalla mia vita non era necessario far fuori un intero caricatore con tanta violenza. Sarebbe bastato anche solo lasciarlo nei guai ogni volta che ci si metteva" spiega l'ex direttore di banca di Monza, oggi agli arresti domiciliari in attesa di sapere quanti anni di carcere dovrà scontare. Gabriele nei guai è finito spesso.

Instabile già dall'infanzia, "da piccolo gridava come un matto", all'età di 14 anni è stato riconosciuto come malato della patologia borderline, un grave disturbo della personalità, a metà tra nevrosi e psicosi, da cui deriva l'incapacità di gestire i rapporti con se stessi e con gli altri. Tra le concause della malattia può esserci la debolezza psichica dei genitori.

"Ogni argomento andava trattato con le pinze: ha interrotto il suo rapporto con il primo psicologo perché secondo lui non prendeva abbastanza seriamente la sua maniacale fede politica" racconta Vescovini, parlando dell'ossessione di Gabriele per la Lega nord. "Dormiva con la bandiera verde sul letto: guai se qualcuno dei fratelli gliela spostava, anche solo per sbaglio".

Il rapporto tra i suoi figli non è mai stato di affetto. "Gabriele per loro era una minaccia. Una volta ha preso a pugni sulla testa sua sorella (nata dal primo matrimonio della madre, ma in quella casa dall'età di 2 anni, ndr) reduce da 15 ore di operazione al cranio per una grave malformazione che l'ha costretta a 20 interventi in 30 anni" prosegue Vescovini, che dà la sua versione dei fatti, senza mai cambiare il tono della voce fioca. "Fabrizio gli ha messo le mani addosso per difenderla, Gabriele ha reagito e, alla fine, le costole le ha spaccate a me".

Vivere in quella casa, a quanto pare, non piaceva a nessuno. "Una volta, mentre c'eravamo tutti, ha aperto i rubinetti del gas per ucciderci e poco dopo piangeva come un bambino perché non lo lasciassi all'ospedale nelle mani dei medici. Come sempre, me lo sono riportato a casa".

Sempre lui, sempre solo (il resto della famiglia faceva più fatica ad accettare Gabriele), Flavio era la rete di salvataggio del suo primogenito bello, intelligente, ma un po' matto. "Ho sempre cercato una guida, anche per me. Qualcuno che mi dicesse se il mio comportamento nei confronti di mio figlio era giusto. Quella malattia, però, è così poco conosciuta da rischiare di essere sottovalutata, come è stato con l'ultimo medico del Centro psico- sociale di Monza" lamenta. Gabriele, comunque, non era un paziente facile. "A 20 anni ha abbandonato il suo secondo psicologo e i medici del Cps per andare a Vailate a convivere con il suo compagno di allora" prosegue Vescovini. "Ha rifiutato il sostegno medico ed è stato un disastro: dopo poco è scappato lasciando sullo zerbino della proprietaria le chiavi di un appartamento ormai distrutto. I danni, ovviamente, li ho pagati io".

Tra padre e figlio, dicono i medici curanti, c'era un rapporto di dominazione: "Gabriele il dominatore, io il dominato. Avevo la necessità di fare sempre qualcosa per lui. Ora che non c'è più, perché io stesso l'ho ucciso, manca il senso della mia vita" spiega Vescovini con lucidità raggelante.

Anche per questo, per avere la sensazione di vivere ancora per suo figlio, ha ottenuto dal giudice il permesso di uscire da casa due mattine la settimana. Il mercoledì e il venerdì si potrà dedicare all'Agave, l'associazione da lui fondata per aiutare le famiglie che devono affrontare il disturbo borderline della personalità: "Non avrò l'esperienza clinica, per cui ci sono i medici, ma quella umana non mi manca. Se, come è stato, mi interpellasse un padre esasperato come me, gli direi di tenersi lontano dalle armi e di non smettere mai di stare dalla parte di suo figlio".

Lui lo ha fatto, per l'ultima volta, nel luglio del 2007, quando, contro tutti, ha aiutato Gabriele a rientrare dagli Stati Uniti. Era partito "come un principino" per lavorare a Disney World, ma poi aveva smesso di dare notizie. "E' stato il periodo più buio. Mi sono anche rivolto a Chi l'ha visto?: sapevo che stava male ma non riuscivo ad avere contatti con lui".

Quando li ha avuti, ha saputo che da Orlando suo figlio era arrivato a New York, era senza un soldo, e dormiva per strada, "non aveva più nemmeno le lenti a contatto".

Nessuno, tranne lui, lo rivoleva a casa. "Non era facile prendersi cura di un ragazzo ridotto così. Persino i servizi sociali del Comune di Monza mi hanno chiesto quasi con schifo perché insistessi tanto a riportare a casa in Italia una persona in quelle condizioni".

Chi lo avesse assistito, a quel punto, oltre che con la sua malattia e i suoi orientamenti sessuali avrebbe dovuto fare i conti anche con la tossicodipendenza, acuita all'estero. "Non sapevo come gestire la situazione: ho chiesto aiuto alla Caritas, al sindaco, al centro psicosociale, ma nessuno ha fatto niente per me" accusa Vescovini.

Forse anche per questo, dal 26 settembre, giorno in cui Gabriele ha rimesso piede a casa, i rapporti tra loro sono degenerati. "Per toglierlo da quell'inferno stavo cercando di farlo entrare alla Fermata d'autobus di Torino, centro specializzato in tossicodipendenza associata al disturbo psichico: per pagare la retta avrei venduto la casa sul lago d'Iseo". Purtroppo, però, i suoi nervi hanno ceduto prima.

Condannato a 12 anni in primo grado, oggi Vescovini è agli arresti domiciliari, in attesa di sapere quanti sono gli anni che la Corte d'appello deciderà di fargli scontare, aspetta il carcere serenamente perché vuole espiare la sua colpa. "I frati del Santuario delle Grazie vecchie che mi hanno confessato dicono che Dio mi ha già perdonato, ma è chiaro che non basta" dice Vescovini, che intanto ha ottenuto anche il perdono di sua moglie. "Voglio pagare per tutto il male che ho fatto perché desidero arrivare un giorno a riabbracciare Gabriele altrove" confessa l'uomo che ha ritrovato la fede al funerale del figlio.

"Non gli ho fatto un favore togliendogli la vita" dice alterando infine la voce "nessuno merita di morire prima che Dio lo voglia. Sono certo, però, che oggi è in pace. Se la misericordia del Signore non accoglie una persona malata come lui, allora non accoglie nessuno".

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Lucia Scajola

Nata e cresciuta a Imperia, formata tra Milano, Parigi e Londra, lavoro a Panorama dal 2004, dove ho scritto di cronaca, politica e costume, prima di passare al desk. Oggi sono caposervizio della sezione Link del settimanale. Secchiona, curiosa e riservata, sono sempre stata attratta dai retroscena: amo togliere le maschere alle persone e alle cose.

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