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Panorama/Sergio Colombo
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Hebron, Cisgiordania, dove gli estremisti dettano l'agenda ai moderati

Da una parte il movimento dei coloni israeliani più radicali, dall'altra la penetrazione di Hamas e la nuova intransigenza di Fatah

Nel cuore un tempo pulsante di Hebron, l'unico battito a farsi largo tra la polvere è quello grave e regolare degli scarponi militari sul cemento. In Shuhada Street, ha vinto il silenzio.

Le serrande sigillate raccontano senza voce la nostalgia di una brulicante arteria commerciale trasformata in buffer zone. Una zona cuscinetto presidiata da soldati. Una strada fantasma, vittima e simbolo della frattura tra le comunità araba ed ebraica che vent'anni fa portò alla bipartizione della città palestinese e oggi, ampliata dalla disputa su Gerusalemme capitale d'Israele, vede le due sponde allontanarsi sempre più in una pericolosa deriva estremista.

Incastonata tra i Monti della Giudea, in Cisgiordania, Hebron è un luogo santo tanto per l'Islam quanto per l'Ebraismo. Qui, secondo le sacre scritture, visse, morì e fu sepolto Abramo, insieme con il figlio Isacco e il nipote Giacobbe.

Due stragi e il nazionalismo

Qui, nei secoli a venire, la convivenza tra popoli fu qualcosa di più di un'utopia, prima che due stragi segnassero irrimediabilmente il corso della storia: l'uccisione di sessantasette ebrei, nel 1929, gettò benzina sul fuoco nazionalista che già divampava in entrambi gli schieramenti, mentre quella di ventinove musulmani nella moschea di Abramo, nel 1994, fu il preludio all'innalzamento dei muri che ancora oggi solcano la città.

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Hebron, Cisgiordania, gennaio 2018 - Foto: Sergio Colombo

I muri

Serpeggiano da Nord a Sud. E marcano il confine interno, sancito dal Protocollo di Hebron del 1997: da una parte il settore H1, che abbraccia l'80 per cento del territorio, è amministrato dall'Autorità Palestinese ed è off-limits per gli ebrei; dall'altra il settore H2, che racchiude il restante 20 per cento, è controllato da Israele ed è a residenza mista.

È qui, nel centro storico presidiato dalle Israel Defence Forces (Idf), che germoglia l'odio tra comunità ebraica e musulmana, esacerbato dalle restrizioni a cui sono sottoposti i ventiduemila abitanti palestinesi: diciannove checkpoint punteggiano l'enclave, limitano l'accesso ad alcune vie della città vecchia e lo vietano nelle altre. Come Shuhada Street, dove per ordine militare sono stati chiusi 304 negozi arabi. “È una questione di sicurezza”, spiega un soldato, indicando la schiera di case adiacente, oltre il filo spinato. “Il nostro mandato è proteggere loro”. Loro sono i 750 coloni che abitano la città, l'unica in tutta la Cisgiordania a ospitare, dal 1979, insediamenti israeliani in centro. E loro, almeno i più moderati, non accettano di passare per aguzzini.

“Vivo a Hebron da prima che venisse divisa”, dice Gabriel, insegnante ebreo di 40 anni, “e anch'io ho perso la mia libertà di movimento: il settore H1 per me è inaccessibile”. Dalla collina i muri sprofondano, fino quasi a sparire, e Gabriel punta il dito verso l'orizzonte: “Vedi quell'edificio? È l'università. E quello è il nuovo centro commerciale. Fa tutto parte della città araba e io non posso andarci. È vietato”. “La verità”, prosegue, “è che il settore israeliano, con cecchini sui tetti e ronde per le strade, sembra una fortezza militare, ma per noi è un ghetto”.

Tra i coloni, il malcontento per la situazione scaturita dagli accordi del '97 è trasversale e si riversa sulla persona che per molti da queste parti è il principale responsabile: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Ha firmato il Protocollo di Hebron che ha diviso la città”, dice Gabriel, “e, più in generale, ha sempre lasciato aperta la porta alla soluzione dei due Stati”. Che per loro è inaccettabile: “Questa non è Cisgiordania, è Giudea e Samaria. E appartiene a Israele”.

Il tentativo di Netanyahu di recuperare consensi è tutto nell'annuncio dei nuovi insediamenti, i primi a Hebron dopo quindici anni, che dovrebbero andare a integrare uno dei cinque agglomerati israeliani esistenti nel settore H2: Beit Romano.

All'ingresso, appollaiato su una torretta, il soldato di guardia vigila sui coloni e sul loro messaggio: “Questa terra fu rubata dagli arabi dopo il massacro del 1929”, recita un cartello ai suoi piedi. “Pretendiamo giustizia. Restituiteci quel che è nostro”.

Le rivendicazioni si sovrappongono, un filo rosso lega le due città sante: “Hebron is my home, Jerusalem is my capital!”, scandisce un corteo che si snoda per le vie del centro e poi s'arrampica fino all'insediamento di Tel Rumeida.

Qui vive Baruch Marzel, volto del partito di estrema destra Otzma Yehudit e già esponente di spicco del kahanismo, movimento radicale che negli Anni '80 fu bandito da Israele ma a Hebron, sua storica roccaforte, affonda ancora radici profonde. Balzato alle cronache per i ripetuti atti di violenza contro la comunità musulmana e per l'omaggio reso alla tomba dell'autore della strage del '94, Baruch Goldstein, Marzel esercita un ascendente importante non solo sui coloni radicali, ma anche sui membri più giovani delle forze armate.

La maggior parte dei militari che pattugliano le strade di Hebron è in età di leva obbligatoria. Tre anni per i ragazzi, due per le ragazze. Arrivano a bordo degli autobus, col mitra in grembo e gli occhi spaesati che un vetro anti-proiettile non può proteggere. “Quando un soldato mette piede qui, la leadership locale sovrasta l'autorità delle Idf”, spiega il giornalista israeliano Amnon Abramovich. “Da quel momento e per tutto il tempo in cui questo soldato sarà di stanza in città, avrà in Marzel il suo unico vero primo ministro”. Era così anche per Elor Azaria, diciannovenne sergente dell'esercito che il 24 marzo 2016, dopo avere ucciso un assalitore palestinese ferito e inerme a terra, si avvicinò al leader dei coloni per stringergli la mano. Di Marzel, Azaria era – insieme con i suoi commilitoni – ospite fisso nei giorni di Shabbat.

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Hebron, Cisgiordania, gennaio 2018 (Foto: Sergio Colombo)

Il rapporto dei soldati israeliani con i coloni

“Qui c'è un rapporto particolare con i coloni”, conferma un soldato che ha servito a Hebron. “Da una parte, ti trattano con premura e ti invitano a casa per le festività. Dall'altra, appena impedisci loro di fare quel che vogliono, o non fai abbastanza contro un ragazzino arabo che scaglia delle pietre, ti insultano, talvolta usano la violenza”. Ed è questo annullamento delle barriere tra l'esercito e l'ala più oltranzista della comunità ebraica che rende l'estrema destra di Hebron particolarmente difficile da arginare, soprattutto in un momento storico nel quale il terremoto diplomatico partito da Gerusalemme può dare nuovo impeto all'intero movimento.

La decisione degli Usa di spostare l'ambasciata nella capitale contesa dà forza e legittimazione a quei partiti in Israele che non riconoscono uno Stato palestinese, come spiega Belal Shobaki, capo del dipartimento di Scienze politiche alla Hebron University. I primi effetti sul dibattito intra ed extra parlamentare già si vedono. E riguardano da vicino la città di Abramo.

“L'ultradestra”, dice Shobaki, “preme sul governo affinché rafforzi la presenza ebraica a Hebron, ad esempio estendendo il controllo israeliano su quartieri del settore H1, ma contigui all'H2, come Bab a-Zawiya”. Netanyahu cammina sul filo, stretto fra richieste dalla portata destabilizzante e la necessità di non dare ossigeno a formazioni estremiste come HaBayit HaYehudi, sempre più influente nella coalizione di governo, o lo stesso Otzma Yehudit di Marzel, che nel 2015 andò a un passo dal riportare il kahanismo nella Knesset e ora cavalca la disputa su Gerusalemme per guadagnare ulteriori consensi.
D'altro canto, il premier sa che assecondare i coloni più di quanto non stia già facendo significa spingere la tensione nella comunità araba ben oltre i livelli di guardia. Negli ultimi nove anni, a Hebron 36 palestinesi sono morti negli scontri con le forze armate israeliane, più che in qualsiasi altra città della Cisgiordania; negli ultimi venti, tredicimila palestinesi hanno lasciato il settore H2; e, tra chi resta, la fiducia nel dialogo si consuma al cospetto di una quotidianità ostile.

I tornelli si aprono e chiudono a discrezione dei soldati, nelle strade come all'ingresso della moschea adibita per metà a sinagoga. Nel suq, le reti metalliche corrono sulle teste dei mercanti e imbrigliano solo in parte le pietre e i rifiuti scagliati dalle case soprastanti. In un negozio, un venditore di stoffe conta i soldi e scuote il capo.

“Il controllo israeliano soffoca la nostra economia”, dice Leena, 37enne palestinese residente nel settore H2. “Paghiamo doppie tasse, abbiamo una disoccupazione del 30%, la più elevata in Cisgiordania, e per mettere insieme 1.200 shekel al mese (circa 290 euro, nda) dobbiamo lavorare in quattro o cinque per famiglia”. Una situazione al limite, che ha ripercussioni anche sul gradimento del presidente dell'Autorità Palestinese. “Maḥmūd ʿAbbās è poco popolare qui, ci ha abbandonati”, dice Leena. “Se la gente preferisce Ḥamās? Non posso negarlo...”.

La minaccia di Hamas

Secondo un report dell'Fbi, già a cavallo degli Anni Duemila il movimento paramilitare estremista aveva creato a Hebron, attraverso le organizzazioni Holy Land Foundation for Relief and Development e Islamic Charitable Association, una rete di assistenza alle famiglie più povere, che gli ha consentito di rafforzare il proprio bacino di consensi. Quindi, complice il deterioramento delle condizioni di vita, Ḥamās ha fatto breccia nel settore israeliano. Adesso, però, la rabbia diffusa tra i palestinesi di Hebron per i fatti di Gerusalemme – e per l'impulso che danno alle rivendicazioni dei coloni - sta calamitando verso posizioni intransigenti anche Fatah. Per non perdere la presa sulla piazza a vantaggio di Ḥamās, nota il professor Shobaki, “il partito di governo sta assumendo in città un atteggiamento meno dialogante e promuovendo una nuova narrativa, imperniata sui concetti di lotta e di resistenza”.

È il radicale che detta l'agenda al moderato. Una deriva speculare a quella in atto sul versante israeliano. L'una alimenta l'altra. Ed entrambe sono alimentate delle tensioni su Gerusalemme, che qui, all'ombra di muri e ferite mai sanate, trovano terreno fertile per prosperare. Si insinuano attraverso i checkpoint. E fanno un'eco sinistra nel silenzio di una strada fantasma.

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Hebron, Cisgiordania, gennaio 2018

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