Gli uomini chiave del caso Ablyazov
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Gli uomini chiave del caso Ablyazov

La dinamica e gli uomini coinvolti nell'arresto di Alma Shalabayeva e della figlia che hanno fatto scoppiare il giallo kazako

È un intreccio tra agenzie private, ambasciatori kazaki, polizia, Viminale, Farnesina, ufficio immigrazione. Il primo uomo delle istituzioni che entra in gioco nel “giallo kazako” che ha portato all’arresto e al trasferimento di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, insieme alla figlia il 31 maggio 2013, è il capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese. È lui il primo ad essere contattato dall’agenzia privata d’investigazioni Syra che si rivolge a Cortese per l’arresto di “uno tra i più pericolosi ricercati dell’Interpol”. Cortese chiama la divisione Interpol del Viminale che conferma l’esistenza di un mandato di cattura che pende sul capo di Mukhtar, ma ignora che l’uomo sia un dissidente che aveva già ricevuto asilo politico in Gran Bretagna.

 

È il 28 maggio 2013. Nel pomeriggio dello stesso giorno l’ ambasciatore kazako viene ricevuto al Viminale da un alto dirigente. È il capo di gabinetto del ministero, Giuseppe Procaccini. Si discute dell’arresto del dissidente e Procaccini chiede che della compagnia che procederà con l’operazione faccia parte il capo della Segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Alessandro Valeri.

 

Valeri informa l’allora capo della Polizia pro tempore, Alessandro Marangoni, prima che si insediasse Alessandro Pansa. Marangoni dà il nulla osta all’operazione. È lo stesso Valeri a mettere in moto la macchina che farà irruzione nella villa di Casal Palocco e che coinvolgerà anche il capo della Criminalpol e vicecapo della Polizia, Francesco Cirillo. Nella notte tra il 28 maggio e il 29 maggio si procede con il blitz che coinvolgerà oltre una trentina di poliziotti. Il dissidente non si trova in casa. C’è invece la moglie Alma, la figlia e il cognato Bolat Seraliyev. Vengono arrestati e portati in una cella dell’Ufficio Immigrazione. Ad occuparsi della vicenda è il direttore dell’Ufficio Immigrazione, Maurizio Improta.

 

La donna dice di avere un passaporto diplomatico rilasciato dalla Repubblica Centrafricana. L’ufficio Immigrazione chiama a quel punto la Farnesina. Ma al Ministero degli Esteri non risulta quel passaporto. Tanto basta per espellerla. Il 30 maggio Alma riesce a contattare lo studio Vassalli-Olivo, ma la burocrazia marcia spedita. Il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, vista il decreto di espulsione.

 

La sera del 31 maggio 2013, Alma e la figlia vengono consegnate alle autorità kazake che le rimpatriano con un aereo di Stato e non di linea come prassi vuole. Intanto i legali contattano il ministro degli Esteri, Emma Bonino, e gli illustrano questa grave violazione di diritti umani. La Bonino chiama Angelino Alfano che dichiara di non essere stato informato dal suo capo di gabinetto. Alfano avverte il neo capo della Polizia, Pansa per avere informazioni sulla donna. È il 3 giugno quando su richiesta di Pansa, la questura e l’ufficio stranieri inviano al Viminale le prime relazioni. Per un mese e mezzo il silenzio. 45 giorni dopo scoppia il caso. Salteranno delle teste hanno assicurato il premier Enrico Letta e il ministro degli Interni, Alfano. La prima ha un nome: Giuseppe Procaccini. Da poche ore ex capo di gabinetto.

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