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La Germania detta legge in Europa, a suo vantaggio

La fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank è la dimostrazione di come Berlino interpreti le norme europee a suo piacimento

Prima c’è stato il salvataggio di Commerzbank, il secondo più grande istituto bancario in Germania, con 18,6 miliardi di euro dei contribuenti tedeschi; poi è arrivato il bail-in, la norma europea per cui il salvataggio di una banca spetta in primo luogo ad azionisti, obbligazionisti e correntisti dell’istituto, mentre l’intervento dello Stato deve essere l’ultima, extrema ratio. In passato cioè la Germania si è fatta promotrice di una regola comunitaria pensata principalmente per le banche degli altri - intanto Berlino aveva investito almeno 200 miliardi per sostenere il proprio sistema bancario. Quello del bail-in non sembra però un caso isolato ma il sintomo di una tendenza dei tedeschi a farsi emuli di Giovanni Giolitti, il cinque volte presidente del Consiglio italiano secondo cui «le regole si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici». E non sono solo gli italiani a notare come il governo di Berlino tenda a interpretare le norme in maniera creativa.

«Tanto per cominciare, l’iniziativa per questo tipo di fusione dovrebbe arrivare dal mondo dell’imprenditoria e non dell’esecutivo». Parlando a Panorama, il portavoce del Partito liberale tedesco (Fdp), Florian Toncar, ha espresso il suo stupore per l’uscita del ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz a favore della fusione fra Commerzbank e Deutsche Bank. «Anche noi guardiamo al progetto con preoccupazione: i governi dovrebbero occuparsi di regolare i mercati, non di interferire con le strutture aziendali». Tanto meno quando le imprese interessate sono quotate in Borsa e il governo detiene il 15 per cento del capitale di Commerzbank. Per i liberali tedeschi, poi, la questione non è solo di forma: «Valuteremo l’operazione dopo aver visto il business plan, ma al momento non sembra l’operazione ideale».

Se fusione sarà, la Deutsche Commerzbank diventerà il secondo gruppo bancario d’Europa (partecipato dal governo per circa il 5 per cento) con 38 milioni di clienti, un valore di mercato per 25 miliardi e asset complessivi per 1,8 trilioni di euro. Alla domanda se il gabinetto di grande coalizione abbia infranto qualche linea rossa con il suo annuncio a favore della fusione, il deputato liberale risponde con un «non saprei; di certo resta l’incentivo implicito affinché l’operazione vada in porto».

Del doppiopesismo di alcune regole volute dai tedeschi si è accorto anche il Tribunale dell’Unione europea con sede in Lussemburgo, che ha condannato la Commissione per aver impedito al governo italiano di ricapitalizzare Banca Tercas alla stregua di quanto fatto da Berlino con Commerz (vedere box nell’altra pagina). Toncar osserva anche un’inversione di tendenza nella nuova politica industriale di Berlino, illustrata a febbraio dal ministro per l’Economia Peter Altmaier. «È strano vedere quel ministero, tradizionale baluardo della non interferenza con il mercato, festeggiare il proprio centesimo anniversario con una dottrina di segno opposto». Secondo il deputato liberale, «favorire sempre i fornitori locali invece della cooperazione internazionale finirà per far ricadere costi aggiuntivi sulle spalle dei consumatori». L’esponente Fdp non ama né la politica dei «campioni nazionali» né le leggi antiscalata dall’estero di alcuni settori industriali né l’auspicato allentamento delle regole Ue sulla concorrenza: tutta farina del sacco di Altmaier. Ovvero di quel ministro che a marzo ha sostenuto la fusione fra la tedesca Siemens e la francese Alstom ma è stato subito bacchettato dalla commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager.

A Bruxelles, invece, c’è chi non si stupisce per niente per le parole di Scholz sulle banche o quelle di Altmaier sulle industrie: «I tedeschi, e con loro i francesi, vogliono fare su scala europea quello che hanno sempre fatto a casa loro». Parlando dietro alla garanzia dell’anonimato, una fonte della Commissione europea ricorda a Panorama che già in passato Berlino e Parigi hanno chiuso un occhio in materia di concorrenza, mentre noi italiani - furbi di fama ma non di fatto - siamo stati sempre i più zelanti interpreti di ogni legge, nazionale o comunitaria. È successo quando Alitalia tentò di rilevare Volare che stava fallendo. Nel 2003, l’Antitrust italiano impose il proprio veto all’acquisizione «e nel frattempo Lufthansa inglobava Eurowings arrivando a coprire il 90 per cento del mercato nazionale, il che le permise poi di ampliarsi su altri mercati, a partire da quello austriaco, sempre con molta benevolenza dell’Antitrust europeo».

Dietro ai quasi-fallimenti a catena di Alitalia ci saranno stati errori di gestione, «ma la compagnia si è trovata fra due fuochi di sbarramento nazionale ed europeo, che l’hanno obbligata a diventare un operatore marginale». Quello che si è osservato nei trasporti, tuttavia, non è un caso isolato, aggiunge la fonte di Panorama. È il caso del «public procurement», ovvero delle voci di spesa della pubblica amministrazione. L’Ue obbliga gli Stati a mettere a gara gli appalti, i servizi, e le concessioni. «In alcuni casi le amministrazioni nazionali possono procedere in deroga assegnando i servizi, come la raccolta della spazzatura, direttamente a delle municipalizzate». A farlo, spiega la fonte, ci provano tutti: e l’Italia, in materia, è stata ripetutamente castigata. «I tedeschi, invece, si sono fatti scrivere di fatto una norma che consente alle loro municipalizzate, anche a quelle partecipate da privati, di farsi assegnare direttamente gli appalti». I precedenti per una «specialità» tedesca non mancano: basti pensare alle Landesbanken, le banche regionali tedesche i cui opacissimi bilanci sono stati sottratti con una serie di cavilli costituzionali alla vigilanza europea.

I tedeschi sono prepotenti e l’Unione europea è una specie di mondo senza regole? «No», risponde l’interlocutore di Panorama. In Europa vige il diritto, il rule of law: «Il punto è dove, quando e come la legge viene scritta, con quanti commi ed eccezioni». E si chiede: «Perché gli italiani non partecipano come i tedeschi e i nordici alle sedute a porte chiuse in cui la Commissione decide sugli aiuti di Stato? Chi glielo impedisce? Eppure è in questa sede che ogni nazione si fa sentire, alzando la voce».

I tedeschi sono i più organizzati, preparati e veloci. «I rappresentanti del loro governo curano i rapporti con Bruxelles incontrando regolarmente i direttori generali». Lo stesso non si può dire degli italiani che fra cambi di governo, rivalità fra guelfi e ghibellini, difficoltà a esprimersi nella lingua di Dante - figurarsi in quella di Shakespeare o di Molière - non sanno neanche a quale porta bussare. I tedeschi invece fanno sistema, aiutati anche dai loro eurodeputati: per esempio dal bravissimo Andreas Schwab della Cdu, il partito di Angela Merkel. «Uno che ha un ufficio efficiente, è molto accessibile dalle imprese e, a sua volta, ha accesso in Commissione a tutti i dossier e ai funzionari che contano».

L’azione è sistematica e intersettoriale, e passa dalla distribuzione delle quote di emissioni di CO², «settore in cui le aziende tedesche la fanno da padrone», allo stop degli aiuti di Stato in favore delle miniere di lignite. «Questo fermo ha messo in ginocchio i minatori sardi e polacchi; in Germania invece si è trovato un meccanismo per finanziare non più le attività estrattive, ma quelle delle centrali elettriche a carbone». Così mentre l’uso del combustibile fossile veniva proibito in Europa, Berlino salvava le proprie centrali a lignite classificandole come «riserve strategiche» fra le proteste degli altri Paesi membri. Il processo non si ferma: così, mentre completano il gasdotto Nord Stream 2 per importare gas russo contro la volontà dell’Ue, il commissario (tedesco) al Bilancio e alle risorse umane, Günther Oettinger, se la prende con l’Italia per aver parlato di infrastrutture con la Cina di Xi Jinping.

Ottima è anche la capacità di piazzare i loro funzionari nei posti-chiave. Emblematico è il caso di Martin Selmayr, l’uomo che già nel 2017 veniva indicato da Politico.eu come «il più potente capo di gabinetto di sempre nell’Ue». Già in carriera sotto José Barroso, poi uomo di stretta fiducia di Jean-Claude Juncker, oggi Selmayr è il segretario generale dell’esecutivo Ue. Di lui si narra che rilegga e ritocchi personalmente le dichiarazioni di intenti che i commissari appena nominati presentano al Parlamento europeo. Il suo arrivo, a marzo scorso, alla testa della macchina della Commissione non è stato trasparente: lo ha stabilito il difensore civico europeo, Emily O’Reilly, mettendo in luce una serie di irregolarità nella sua investitura. La nomina, sostenuta anche da Oettinger, è stata fatta apparire urgente quando non ce ne era alcun bisogno, ha rilevato la signora O’Reilly. Selmayr, dal canto suo, si è ben guardato dal dimettersi. Accanto a lui, riprende la fonte di Panorama, «ci sono almeno cinque o sei tedeschi fra i capi e i vice capi di gabinetto della Commissione, senza contare i direttori generali».

Un altro punto di forza dei tedeschi è l’abilità nel tessere alleanze: «Guardiamo il caso della digital tax; Macron la voleva, la Merkel no per via di alcuni accordi che l’impresa automobilistica ha preso con Apple». A fermare il provvedimento hanno provveduto Irlanda e Olanda «ma che il no venisse da Berlino era chiaro a tutti». Anziché farsi imbrigliare dagli altri soci del club europeo, è tempo che l’Italia riprenda a piene mani il ruolo di Paese fondatore dell’Ue. E che lo faccia in fretta: i tedeschi non aspettano nessuno.

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