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Filippine: la guerra sporca di Duterte contro tossici e spacciatori

Omicidi extragudiziali. Squadroni della morte. E un numero di vittime superiore alle 3300 persone: cresce la preoccupazione per il "Vendicatore" di Manila

In campagna elettorale Rodrigo Duterte, eletto presidente delle Filippine il 30 giugno scorso, aveva promesso  di far fuori tanti narcos e piccoli spacciatori  che «i pesci diventeranno grassi» grazie ai resti umani sparsi nella baia di Manila. La sua promessa non è rimasta lettera morta. Anzi è stata rivendicata con orgoglio. E ad oggi, in meno di cento giorni da quando questo avvocato di 61 anni si è insediato  al potere, sarebbero oltre 3300 i pusher e i trafficanti uccisi per le strade del Paese nella sua guerra alla droga. I sicari, in questo caso, sono poliziotti ma anche vigilantes dei temibili squadroni della morte che erano già in gran parte al suo servizio quando era sindaco di Davao nell’isola di Mindanao.

«Hitler ha sterminato tre milioni di ebrei. Nelle Filippine ci sono adesso tre milioni di tossicodipendenti. Sarei felice di sterminarli»  aveva detto l'altro giorno, di ritorno da una visita di Stato in Vietnam, quest'uomo che nei primi 100 giorni - a seguito delle proteste internazionali per le esecuzioni sommarie commesse sotto il suo mandato - ha lanciato strali contro il presidente Barack Obama, definito l'ambasciatore americano «un figlio di p...» , insultato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon che aveva chiesto diporre fine agli omicidi extragiudiziali, preso di petto Papa Francesco e mostrato il dito medio ai leader dell'Unione europea.

Il consenso di cui gode nel Paese resta però granitico. Piacciono i suoi modi spicci e populisti, già sperimentati quando era sindaco di Davao

Che le cose siano esattamente come raccontata dalla grande stampa internazionale lo ha confermato anche uno degli esecutori, Edgar Matobato, 57 anni, quando è sato chiamato a testimoniare in un'audizione al Senato che ha fatto molto discutere. Ha raccontato di persone sequestrate, eliminate e date in pasto ai coccodrilli, di altre sventrate e buttate in mare, secondo un metodo tristemente noto e adottato già alla fine degli anni 90 quando Matobato fece il suo ingresso nei «Lambada Boys», gruppo per le liquidazioni extragiudiziali creato dal sindaco Duterte. Tutte dichiarazioni che Duterte ha respinto, sostenendo che Matobato è manipolato dagli avversari politici, ma aggiungendo un eloquente: «Mi chiamate la Squadra della morte? Giusto, è la pura verità». 

La verità però è che la giustizia sommaria applicata da Duterte ha trovato come vittime principalmente i piccoli spacciatori e i consumatori, non tanto i grandi narcotrafficanti molti dei quali sarebbero fuggiti all'estero, senza che le forze dell'ordine facessero nulla per impedirlo, secondo le denunce delle Nazioni Unite. La sua battaglia è quella di ripulire le strade, come già fatto quando era sindaco di Davao. Non già e non tanto combattere la piaga del narcotraffico. A chi uccide pusher, narcos o anche, spesso, piccoli tossicodipendenti, il presidente filippino avrebbe anche promesso la più assoluta impunità e - secondo l'Onu - anche ricompense in soldi.

Duterte si è recentemente vantato anche che, in soli cento giorni, grazie alla sua politica repressiva, il tasso di criminalità nel Paese si sarebbe ridotto di oltre il 10%. Come lo abbia fatto, e a quale prezzo, è tutt'altro discorso.

Dietro la sua battaglia, come scrive stamane Guido Olimpio sul Corriere della Sera, c'è in realtà una complessa partita internazionale che sta portando le Filippine di Duterte sempre più lontano dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti.

Duterte ha chiesto armi a Pechino e Mosca per la lotta contro il crimine e il terrorismo interno, ha detto agli americani di ritirare i consiglieri militari dall’isola di Mindanao sostenendo che la loro presenza danneggia gli sforzi di pacificazione con i ribelli musulmani dopo aver annunciato la fine delle manovre militari congiunte con gli Usa. «Non voglio che le Filippine finiscano in mezzo a uno scontro Pechino-Washington, se il campo di battaglia sarà San Francisco o la Cina per me va bene». ha detto Duterte nella sua marcia di avvicinamento con la Cina, un Paese con cui storicamente Manila è sempre stata in rapporti piuttosto tesi a causa dell’espansionismo cinese nel Mare del Sud.

Dietro la guerra alla droga, e i toni sempre più accesi muscolari, c'è anche questa partita geopolitica che il «Vendicatore» - così lo chiamano - intende giocare fino in fondo.

EPA/KARL NORMAN ALONZO/PPD
Il Presidente filippino Rodrigo Duterte

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