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Figli all'estero: non è una questione di privilegi

Quanti sono disposti a fare questi sacrifici? Molte le reazioni al mio precedente post sui ragazzi che scelgono di andare a studiare lontani dall'Italia

Quando ho raccontato in questo blog la mia esperienza di padre di due figlie emigrate all’estero per studiare all’Università – Silvia a St. Andrews, in Scozia, Elena a Maastricht, in Olanda – non immaginavo che avrei suscitato un dibattito da oltre 50mila visualizzazioni e migliaia tra condivisioni e commenti in pochi giorni.

Ho letto molti dei commenti e sono rimasto impressionato dal mondo che è emerso attraverso la Rete. Un mondo di giovani che ha scelto di partire, altri che sono rimasti in Italia per scelta o per mancanza di scelta, genitori entusiasti della decisione dei figli di lasciare l’Italia, altri incapaci di vivere serenamente il distacco, e poi un numero incredibile di professori italiani, giovani e no, che insegnano fuori.

Alcuni di quelli che hanno abbandonato l’Italia riconoscono alle nostre Università una formazione di alto livello (ma insegnano all’estero…).
Alcuni lamentano con una certa amarezza che chi va fuori è un “privilegiato”, perché può permetterselo.

È da qui che voglio partire.

Resto sulla testimonianza personale, perché è l’unica che conti. Io non sono ricco. Anch’io combatto per arrivare alla fine del mese. Pago un mutuo, mi è capitato (eccome se mi è capitato) di rateizzare cartelle fiscali, che ancora pago.

Non ho alcuna certezza del futuro. Ma nella mia scala di priorità l’istruzione dei figli viene al primo posto.
Conosco sempre più amici nelle mie condizioni, pronti a investire nell’Università dei figli piuttosto che nell’acquisto di una casa. Stiamo diventando un po’ più “americani”.

È notorio che negli Stati Uniti, dove le rette pesano per cifre esorbitanti, le famiglie si vendono un appartamento per pagare gli atenei migliori.

Quanti tra quelli che gridano al privilegio sarebbero disposti a fare gli stessi sacrifici pur di dare ai figli una laurea che non sia solo un pezzo di carta straccia in un mercato globale?

E quanti, soprattutto, tra coloro che invece non avrebbero problemi a mantenere i figli all’estero preferiscono averli accanto, nell’ateneo dietro l’angolo (anzi, magari dietro l’angolo!), solo perché sanno che la carriera gli sarà assicurata dalla cara, vecchia raccomandazione?

Confesso che mi sono quasi commosso nel leggere i tanti commenti di quelli che hanno vissuto la mia stessa esperienza, un duro apprendistato alla vita da ultra-enni al fianco dei figli, nel tentativo di aiutarli a costruire un percorso che non li condanni a essere "bamboccioni" a vita.

In tanti ormai sanno che cosa significhi avere un figlio che a 16 anni parte per un anno e affronta da solo, negli Stati Uniti o altrove, lo sradicamento, l’integrazione in una famiglia e un contesto nuovi, l’apprendimento di un’altra lingua, tutte le difficoltà di dover risolvere da solo i problemi che incontrerà.

Ma naturalmente, il penultimo anno di liceo vissuto all’estero è per un ragazzo anche un’esperienza esaltante di apertura alla vita e al mondo, che non dimenticherà mai. Poi, una volta rientrati, tutta la trafila delle applicazioni e della scelta delle Università e degli insegnamenti di nuovo fuori dall’Italia.

E lo studio, il duro studio, per avere un buon voto alla maturità (più duro al centro-nord che al sud, come dimostrano le statistiche, a parità di risultato) e agli esami in lingua, per essere ammessi.

E poi, a 18 anni, ritrovarsi completamente soli in un paese che non è il proprio, con la responsabilità di essere all’altezza dei sacrifici, propri e dei genitori.

E tutto per cosa? Per avere una chance in più. L’opportunità di un futuro migliore che consenta di sviluppare le proprie capacità senza dover soccombere, non davanti al merito, ma al doppio cognome o ai legami familistici o politici dei propri “concorrenti sleali”.

L’Italia, purtroppo, è ancora questo.

E poi c’è l’ambiente universitario. Dico a ragione “ambiente”, perché comprende tutto. Sono passato dalla commozione all’indignazione quando ho letto dell’assoluta mancanza di rispetto di certi professori (non tutti, per fortuna) che convocano gli studenti per gli esami alle 8 del mattino di un giorno per farli tornare il giorno dopo e farli aspettare anche due-tre giorni prima di poter entrare in aula per venti minuti di esame.

Indignazione quando ho letto di chi si è visto scavalcare da fanciulle belle e impreparate che hanno avuto 110 e lode, o di genitori ai quali i figli hanno raccontato di dover fare lezioni nelle tenso-strutture in giardino per assenza di aule, o di aver trovato la cattedra ma non il cattedratico per due-tre volte di seguito ed essere tornati a casa senza poter assistere alla lezione per cui si paga (perché va detto che ci sono università inglesi che costano molto più di quelle italiane, ma in proporzione a quello che danno, assai meno).

È un’indignazione che dovrebbe contagiarci tutti.
Non mi pento dei sacrifici che io e le mie figlie, come centinaia e migliaia di altri italiani come noi, dobbiamo fare ogni giorno, ogni mese, per mantenere i figli all’estero.

C’è in qualche commento del sarcasmo per i mantelli rossi che indossano gli studenti di St. Andrews (e in tutta la Gran Bretagna).

Be’, aggiungo che ci sono vere e proprie “fiere dei progetti”, una sorta di mercatini delle idee dove gli studenti possono fare applicazione per la ricerca su un progetto specifico in competizione con altri.
Aggiungo che studenti del terzo anno possono essere selezionati per periodi di ricerca estivi dietro pagamento di 400 sterline a settimana per due mesi.

Aggiungo che gli incontri “tutoriali” con professori di livello mondiale si svolgono con 10-12 allievi e ciascuno, dopo, può intrattenersi col docente per chiarimenti. Aggiungo (e preciso, per quanti l’hanno contestato) che non si paga la retta in Scozia se per tempo lo studente dell’Unione europea (non inglese o gallese o irlandese del Nord, che pagano salato) fa richiesta di una borsa al governo scozzese. Ma anche in Gran Bretagna, si può accendere un mutuo da ripagare dopo la prima assunzione.

Aggiungo che per gli studenti sono previste residenze e case funzionali e pulite e quelle sì vanno pagate, ovvio. Aggiungo che il feedback dopo aver presentato un “saggio” è costante, diretto ed eventualmente premiato con lettere, incoraggiamenti, nuove opportunità. Il merito prima di tutto (lo dico a quanti hanno commentato che loro da giovani hanno fatto il ’68 per migliorare scuola e Università, e invece le hanno rovinate).

E aggiungo, con sprezzo del ridicolo, che è esaltante perfino la tradizione del “May dip”, il tuffo del primo maggio nelle acque gelide del Mare del Nord, perché sono prove che legano gli studenti in una comunità che ha un solo obiettivo: crescere insieme e affermarsi individualmente nella vita.

C’è chi ha fatto del sarcasmo sulle “coccole” che i professori fanno agli studenti, in Scozia come in Olanda. Ma le “coccole” sono fondamentali.

È una “coccola” anche ricevere dal rettore, a Maastricht, email su qualsiasi argomento d’attualità o nei momenti cruciali della vita accademica, con continui incoraggiamenti alla propria crescita intellettuale, a non perdere mai di vista ciò che conta, a considerare l’università una scuola di vita prima ancora che un centro di ricerca.

Una “coccola” avere la possibilità di andare in biblioteca fino a notte inoltrata, all’UCM (University College di Maastricht), e arrivando di buon mattino conquistare i posti migliori: le “bolle”, specie di piccole verande separate con vetrata che guarda un chiostro alberato.

Le “letture” più importanti si tengono in chiesa, coi sedili a sbalzo e il palco attrezzato con pedana, alzatina e megaschermo.

Aggiungo che per rinnovare un contratto a un ricercatore, in Olanda, dubito che si debba passare come da noi per una burocrazia da terzo mondo e transitare per la Corte dei Conti olandese per ogni singola assegnazione, e questo lo dico a beneficio dei nostri professori.

Poi: a Maastricht gli studenti raggiungono le sedi dell’Università a piedi o in bicicletta e metà degli abitanti non è olandese, si parla inglese ovunque, la città è di una pulizia impeccabile, la raccolta dei rifiuti differenziata, i subaffitti degli studenti regolarmente indicati nel contratto.

Ci sono ottime Università anche in Italia, purtroppo fuori dai radar delle classifiche internazionali.

Manca del tutto la cultura dell’investimento nel futuro dei giovani, nell’istruzione, nella ricerca. Un’intera classe dirigente italiana si sta formando all’estero e non è detto che rientri in Italia.

E poi voglio dirlo chiaro: sono i nostri figli a chiederci di andare fuori dall’Italia. Di cercare all’estero una vita migliore. Sono loro i primi (e gli ultimi) a prendere la decisione. E la prendono sfidando perfino le nostre legittime paure. I nostri figli non hanno paura. E noi?

Tutto questo è un problema o no? È qualcosa di cui è doveroso o no parlare?

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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