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Immigrazione: si fa presto a dire blocco navale

Una misura come quella prospettata dai soliti soloni italiani è possibile solo a determinate condizioni. Che, come Paese, non sapremmo gestire

Per Lookoutnews

La Libia, come noto, è il Paese prediletto dai signori della guerra per gestire i traffici di esseri umani, in quanto rappresenta un “failed State”, uno Stato fallito dove non esistono più né un potere centrale con il quale interfacciarsi né un controllo del territorio da parte di alcuna autorità.

La guerra civile seguita alla caduta del regime di Gheddafi (2011) ha spaccato la Libia in più parti e portato alla nascita di almeno due governi, uno islamista a Tripoli e uno laico a Tobruk, che si fronteggiano con le armi e che attuano ciascuno la propria autorità su porzioni di territorio molto limitate, producendo un’economia di guerra che si sostanzia anche di questo tipo di traffici illegali, soprattutto dal momento che la Libia è sotto embargo da parte delle Nazioni Unite.


Chi chiede il blocco navale deve poi sapere che questo sforzo militare è estremamente oneroso e che è praticamente impossibile che l’Italia lo attui in solitaria

 Dopo l’ultima strage di migranti al largo delle coste italiane, si parla di blocco navale per impedire il ripetersi di simili tragedie del mare. Ma chi chiede a gran voce il blocco navale, deve essere consapevole che la sua attuazione impone sacrifici e violenza. Deve sapere che tra le regole d’ingaggio vi è anche la possibilità di dover sparare e uccidere chiunque tenti di forzare il blocco, fino alla possibilità di dover bombardare i porti libici, siano essi ufficiali o improvvisati, e i punti di raccolta dove i trafficanti fanno confluire uomini e mezzi.

 Chi chiede il blocco navale deve poi sapere che questo sforzo militare è estremamente oneroso e che è praticamente impossibile che l’Italia lo attui in solitaria, ma avrà bisogno di più Stati che collaborino alla sua messa in atto e mettano a disposizione le proprie flotte, sotto l’egida ONU, per mesi e forse anni.

 Deve inoltre sapere che la definizione di blocco navale è parziale e che più correttamente si deve parlare di blocco aero-navale, soprattutto nel caso libico, perché tracciare la presenza di piccole imbarcazioni in un’area tanto vasta è di estrema difficoltà, considerato che le coste libiche si sviluppano per una superficie di ben 1.770 km. E si dovrà pensare magari all’utilizzo di droni (sarà di questo che il premier Renzi e il presidente Obama avranno discusso nell’incontro a Washington D.C.?), di cui l’Italia è un grande costruttore, ma senza un numero sufficiente di piloti da remoto.

 Infine, deve sapere che la tratta di esseri umani non nasce in Libia, ma che i flussi migratori hanno origine da due direttrici principali: quella del Corno d’Africa, rotta praticata in particolare da profughi sudanesi, somali, etiopi ed eritrei, che parte dallo snodo di Khartoum, in Sudan, e segue la strada per l’oasi libica di Kufra, fino ad arrivare ad Ajdabiya-Bengasi. E quella Agadez-Dirkou-Sebha, una rotta migratoria che, attraverso il Niger, congiunge Africa Occidentale e Centrale e si snoda lungo l’antica via carovaniera per entrare nel Paese nordafricano dal posto di frontiera di Toumu.

 Ragion per cui l’istituzione di un blocco navale di fronte alle coste libiche deve per forza contemplare l’accordo con i Paesi africani dai quali partono i migranti e chi lo attua deve ottenere il loro impegno a limitare alla fonte questi grandi esodi (il che è infattibile nella pratica).

 

La legge dell’embargo
In Libia al momento vige un embargo navale, che è ben altra cosa rispetto al blocco navale. Quello relativo alla Libia è stato costituito in seguito alla risoluzione ONU 1970 del 2011 e poi ampliato nel tempo. Le Nazioni Unite lo hanno imposto al tempo della guerra contro Gheddafi.

 La Carta ONU prevede che il Consiglio di Sicurezza possa decidere l’adozione, da parte degli Stati membri, di misure di embargo contro uno Stato colpevole di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione (artt. 39 e 41).

 La misura, inoltre, è considerata anche come atto con il quale uno Stato dispone il sequestro di navi mercantili estere, ancora nei suoi porti o presenti nelle sue acque territoriali, oppure impedisce loro di allontanarsene. È considerata inoltre come misura di pressione politica o, ancor più, come atto di rappresaglia, nel qual caso assume la denominazione tecnica di arret de prince o arret de puissance.

 Diviene vero e proprio atto di guerra solo nel caso in cui sia scaduto un termine ragionevole entro il quale le navi di commercio battenti la bandiera di uno Stato nemico, ancorate in un porto nazionale o che si trovino nelle acque territoriali dello Stato al momento dell’inizio dell’ostilità, debbano allontanarsene.

 La natura sanzionatoria delle previsioni di embargo si fonda sul contenuto dell’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite che conferisce al Consiglio di Sicurezza il potere “di decidere quali misure, non richiedenti l’uso delle forze armate, debbano essere prese per dare effetto alle sue decisioni […] comprendendo l’interruzione completa o parziale dei rapporti economici”.

 Il successivo articolo 42 precisa che “se le misure previste nell’articolo 41 si sono dimostrate inadeguate, il Consiglio può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Ed è proprio qui che entra in gioco il blocco navale. Ma in cosa consiste esattamente?

 

Il blocco navale
Nel glossario del diritto del Mare, consultabile sul sito del Ministero della Difesa italiano, si legge: “Il blocco navale è una classica misura di guerra volta ad impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante. La prassi del blocco è disciplinata - se si esclude la Dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856 sui Principi della Guerra Marittima - da norme di natura consuetudinaria, non essendo mai entrata in vigore la Dichiarazione di Londra del 26 febbraio 1909 sul Diritto della Guerra Marittima che lo regolamentava e disciplinato nell’ordinamento italiano dalla Legge di Guerra del 1938”.

 

Il blocco navale prevede:

  1. la definizione in termini geografici della zona bloccata provvedendo a notificarla sia al belligerante sia agli Stati neutrali;
  1. il mantenimento di una forza aeronavale dedicata stabilmente all’applicazione del blocco in modo imparziale nei confronti del naviglio di qualsiasi bandiera;
  1. la cattura dei mercantili neutrali che abbiano violato il blocco;
  1. l’attacco ai mercantili che tentino di resistere alla cattura;
  1. l’esclusione dal blocco dei traffici di beni di prima necessità come viveri e medicinali (questo principio è stato di recente affermato dall’art. 54, n.1 del I Protocollo di Ginevra del 1977 addizionale alle 4 Convenzioni di Diritto Umanitario del 1949).

 

Conclusioni
Se dunque l’embargo navale, che non nasce come misura di guerra, si propone di imporre coattivamente delle sanzioni economiche decise contro un determinato Stato, il blocco navale è invece una vera e propria misura di guerra.

 Matteo Renzi ha affermato in proposito: “Un blocco navale va capito come lo si fa. Se fatto in certi modi può fare un favore agli scafisti, perché sei costretto a prendere i profughi, e finirebbe per essere un servizio taxi. Un blocco delle partenze dalla terraferma, stante la situazione attuale, sarebbe impossibile farlo in Libia”.

 Dunque, l’Italia, in prima fila nella crisi libica, non sembra credere troppo a questa soluzione, forse perché non si ritiene pronta, economicamente, militarmente e psicologicamente. Perciò, il governo avrà pensato altre strategie. Quali, ancora non è dato sapere.

 

 

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Luciano Tirinnanzi