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Haftar: "Sono l'unico in Libia che combatte i terroristi"

Intervista esclusiva al generale che sta conducendo l'offensiva verso Tripoli contro Al Serraj

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ltri quaranta cadaveri lungo la strada per la capitale. Che si sommano ai 691 morti dall’inizio della battaglia per Tripoli. È l’ultimo bilancio dei caduti, da quando lo scorso aprile l’esercito del generale Khalifa Haftar ha rotto gli indugi e marciato verso il cuore del potere libico, dove le milizie che difendono il Governo di accordo nazionale (Gna) sono sempre più in difficoltà. Così come il premier Fayez Al Serraj, favorito dell’Onu e sostenuto anche dall’Italia, ormai sotto assedio e, secondo alcune fonti, sul punto di crollare. Anche perché «le operazioni militari non si fermeranno» ha tuonato Haftar da Rajma, sede del Comando generale del Libyan national army (Lna), dove lo ha raggiunto Isa Abdul Qayum per un interminabile caffè. Sostenuto da Russia, Egitto e Francia in primis, l’uomo forte di Bengasi si dice sicuro della vittoria. Dopo aver liberato la Cirenaica da ribelli e terroristi, e dopo aver negoziato con le tribù del deserto, gli manca solo Tripoli da conquistare. Che, però, ancora resiste grazie allo sforzo delle milizie di Misurata, la piccola Sparta libica che non si rassegna all’idea di piegarsi a un nuovo dittatore laico.   

Parliamo delle operazioni militari in corso, generale. Com’è la situazione?

Eccellente. Chiedo al popolo libico di non prestare attenzione alle voci che affermano che potremmo ritirarci, o addirittura che pensiamo di fermarci in questa fase. Le operazioni militari non si fermeranno prima di aver raggiunto tutti i nostri obiettivi. Il morale dell’esercito è alto e i comandanti sanno bene che stanno compiendo uno storico dovere nazionale. Hanno ordini chiari. Sanno che la Libia è in pericolo, e che non vi saranno indietreggiamenti rispetto al dovere di salvarla. L’atmosfera per il lavoro politico e il dialogo arriveranno in tempi più favorevoli per il loro successo.

Cosa accadrà dopo la conquista di Tripoli?

Entreremo in un periodo di transizione che, questa volta, sarà definito e disciplinato. È importante che vengano svolti diversi compiti di base, al fine

di preparare il terreno per la fase permanente. Per esempio, lo smantellamento di tutte le milizie, il disarmo e la concessione di garanzie a coloro che avranno collaborato a tale riguardo. Lo smantellamento di tutti gli organismi generati dall’Accordo di Skhirat, che non solo è scaduto e non ha trovato alcuna uscita dalla crisi, ma che in realtà ha creato altre crisi.

Cosa intende per «fase permanente»?

Intendo prepararmi per una fase durevole e normalizzata sopra cui lo Stato imperni la stabilizzazione, in modo che si avvii la ricostruzione, lo sviluppo e la rimozione dei detriti dopo lunghi anni di stagnazione. Tra i compiti di tale fase vi sono la formazione di un nuovo comitato costituzionale e una proposta di legge sul referendum, il riequilibrio del settore petrolifero e delle sue entrate.

Quindi, il pilastro principale sarà un governo di unità nazionale, che porterà a una Costituzione e a nuove elezioni?

Sì, è esattamente ciò che intendo. Il governo di unità nazionale inizierà subito a lavorare. Se, per ragioni logistiche e di sicurezza temporanee, questo avesse difficoltà a insediarsi a Tripoli, potrà anche iniziare a lavorare da qualsiasi altra città, come Bengasi o altre che si ritengono sicure a Ovest, Est o Sud, fino a quando la capitale non sarà pronta per il trasferimento dei poteri. Noi non operiamo discriminazioni tra città o regioni. Vediamo una Libia unica e unificata.

Lei ha in mano un rapporto dell’Unione europea. Che cosa dice?

Consiglia cautela rispetto a un ulteriore impegno con Serraj, sulla base della futilità di tale vincolo. Questo, per la relazione stretta tra Fajez Al Serraj e il suo governo con le milizie, e per l’infiltrazione nelle loro fila di persone accusate di terrorismo e tratta di esseri umani. L’Ue teme che il processo decisionale del Gna sia governato da uomini d’affari corrotti e dai Fratelli musulmani.

Quanto conta l’Europa in questa fase?

Noi contiamo innanzitutto sugli sforzi dei nostri soldati e ufficiali, sul sostegno del popolo libico, che non ci ha mai delusi dall’inizio della guerra al terrore, e sugli sforzi per riprenderci la nazione. Tuttavia, la posizione europea rimane importante per noi. Forse la nostra naturalezza nel trattare con loro, e ciò che vedono accadere sul terreno, li ha motivati a scrivere tale rapporto. Vogliamo che comprendano il desiderio del popolo libico di cambiare la propria realtà e di uscire da questa crisi. Ma tale cambiamento inizia con la guerra al terrore, lo smantellamento delle milizie e la fine di questa fase dell’autorità dirottata altrove.

Come valuta, per il resto, l’opinione internazionale?

La posizione internazionale per lo più è di supporto al nostro esercito, diretto e indiretto. Anche chi non ci sostiene, ci ha comunque assicurato che comprende le ragioni dell’esercito. D’altra parte, noi parliamo francamente.

E l’opinione regionale, quella dei Paesi limitrofi?

La posizione regionale è eccellente. Oltre alle relazioni speciali con l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Giordania, il Kuwait, la Tunisia, il Ciad e il Niger, abbiamo notato importanti sviluppi nelle nostre relazioni con l’Algeria e il Sudan, per i quali desidero stabilità in questa fase critica. Le preoccupazioni dei Paesi limitrofi, quando presenti, derivano da chi teme una fuga incontrollata di terroristi e criminali da Tripoli sull’onda della sconfitta, come già successo.

Comunque, c’è chi solleva dubbi sulle reali intenzioni del suo esercito...

(Sorride). Dovrebbero prima sollevare dubbi su coloro che hanno parlato di democrazia e poi hanno occupato la capitale, imponendo un governo con la forza delle armi. Dovrebbero sollevare dubbi sul Consiglio presidenziale, che si è rifiutato di rimettere l’autorità in altre mani anche dopo che l’Accordo di Skhirat è scaduto per tre volte. Dovrebbero sollevare dubbi su chi rafforza i gruppi terroristici e le milizie, e garantisce loro porti e denaro sicuri, distruggendo lo Stato e le sue istituzioni. Per quanto riguarda l’esercito, è lo stesso che ha protetto le ultime elezioni del 2014, e quello impegnato in tutte le iniziative internazionali. L’esercito garantirà e proteggerà l’insediamento del nuovo Stato libico, a Dio piacendo.

E lei che intenzioni ha?

Noi vediamo le elezioni come la strada maestra, come in tutti i Paesi del mondo. L’abc della democrazia passa attraverso le urne, non attraverso un presunto «consenso», che è stato forzatamente imposto ai libici nelle lobby degli alberghi. Le elezioni sono state una nostra richiesta fin dall’inizio, e noi le accettavamo come soluzione per la crisi di legittimità. Anzi, le abbiamo promosse negli incontri di Abu Dhabi I e II, e di Parigi I e II, così come a Palermo. I valori e le istituzioni di uno stato civile e moderno non possono vivere all’ombra del controllo dei terroristi e di gruppi come Al Qaeda, Lifg (Libyan islamic fighting group), i Fratelli musulmani, le milizie e le bande di criminali, contrabbandieri e predatori di fondi pubblici. Che peraltro sono la maggioranza di coloro che combattiamo oggi a Tripoli. Questo non è un segreto, ed è ben noto alle Nazioni unite e alla comunità internazionale.

C’è stata qualche iniziativa o proposta da parte di Serraj, ultimamente?

(Sorride di nuovo). Non credo che abbia qualcosa da dire. È un uomo scosso e non ha la lucidità di decidere. Ho avuto alcuni scambi diretti con lui e l’ho conosciuto bene negli ultimi anni, come tutti sanno. In verità, lui non sa cosa vuole e non è in grado di firmare alcun accordo. Ti dà sempre l’impressione di essere inconsciamente e intensamente terrorizzato da qualcosa che neanche lui conosce e che non saprebbe descriverti. A ogni modo, l’iniziativa politica in realtà non appartiene a Sarraj, che è solo un’eco del discorso ripetitivo di Ghassan Salamé.

Ha citato Salamé, rappresentante del Segretario generale dell’Onu. Come considera il suo rapporto con lui?

In generale, lo rispetto e lo apprezzo perché è un nazionalista arabo colto. Tuttavia, ultimamente, le sue informazioni sembrano monche e non riconosce all’esercito ciò che gli spetta, anche se noi gli forniamo qualsiasi informazione desideri in totale apertura. I suoi rapporti al Consiglio di sicurezza e alcune delle confuse notizie della sua missione ci fanno credere che collaborare con lui non sia di alcun beneficio. Durante il nostro ultimo incontro, ha negato i resoconti dei suoi discorsi e ha affermato che sono stati presi fuori dal contesto, e che lavorerà per chiarire le questioni. Da parte mia, gli ho anche detto francamente che spero ancora che la cooperazione tra noi possa continuare e svilupparsi verso le prospettive di risoluzione della crisi, e che non mi piacerebbe trattarlo come i precedenti inviati.  n

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