Egitto: a che gioco gioca l'esercito
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Egitto: a che gioco gioca l'esercito

Non vi può essere piena democrazia senza un’economia stabile, tantomeno in uno Stato ancora shairitico. I militari devono decidere come condizionare il futuro

Per Lookout news

Secondo il diritto internazionale generalmente riconosciuto, la Costituzione di uno stato che si vuole definire “moderno” non può prescindere dal contenere il concetto di laicità. Ma l’Egitto non è uno stato come tanti e di questo prerequisito se ne frega altamente. L’Egitto è il più grande Paese arabo e svolge un ruolo centrale nelle politiche che regolano questa parte di mondo. Inoltre, possiede l’esercito più forte tra i Paesi arabi. Fattori questi che, al netto delle ingerenze occidentali, fanno una bella differenza nel Medio Oriente delle primavere.

 

Anche se agli occhi della storia il processo rivoluzionario egiziano ha seguito un iter naturale - destituire il “tiranno”, darsi nuovi parlamento e presidente, aprire una fase costituente e votare un referendum istituzionale - la parabola della primavera egiziana non poteva certo dirsi conclusa con il varo della Costituzione. Infatti, il blitz del presidente Mohammed Morsi contro la magistratura dello scorso anno aveva già rischiato di compromettere seriamente la transizione politica mentre l’appoggio del popolo e di numerose forze moderate alla fase democratica e laica (vedi piazza Tahrir) non è bastato. Perché nemmeno nel moderno Egitto la secolarizzazione è facilmente esigibile. Se, come dice Mohammed El Baradei, leader dell’opposizione egiziana al presidente Morsi, “la Sharia non dà da mangiare”, è anche vero che il Paese è ancora fortemente condizionato dalla tradizione islamica.

 

Il fattore religione
Certo, molte altre assemblee costituenti nella storia recente hanno dovuto fare i conti con il “fattore religione”. Anche l’Italia - tra l’altro, unico Paese occidentale in cui la maggior parte degli egiziani ha votato a favore della Costituzione di Morsi - ha in parte derogato al principio che fu di Cavour di “libera Chiesa in libero Stato”, permettendo de facto alla Chiesa cattolica di esercitare notevole influenza sulla vita politica nazionale, attraverso la Democrazia Cristiana. Un processo assimilabile, con i dovuti distinguo, a quanto sta accadendo in Egitto: il movimento dei Fratelli Musulmani (illegali nel Paese fino al crollo di Mubarak), oggi è prepotentemente rientrato in gioco.

 

Rispetto al 1971, la nuova legge suprema mostra alcuni passi in avanti. Ma sta di fatto che la Sharia si conferma la principale fonte legislativa del Paese: la sua interpretazione viene demandata senza appello all’autorità religiosa e, in particolare, agli esperti dell’Università di Al Azhar, il più antico istituto accademico religioso sunnita del mondo islamico. Per quanto oggi Al Azhar rappresenti la parte più moderata dell’islam egiziano - con cui i Fratelli Musulmani sono in aperta contrapposizione - ciò non significa che più avanti dalla Moschea di Al Azhar non possa partire il sostegno al cosiddetto fondamentalismo.

 

Il fallimento dello Stato arabo-musulmano
Ed è qui che diviene evidente il fallimento dello Stato arabo-musulmano, un fattore comune in tutto il Medio Oriente e che presto potrebbe contagiare anche gli Stati patrimoniali del Golfo. Con una differenza significativa per l’Egitto: volendo fare un paragone cinico, la Libia con i suoi cinque milioni di abitanti e le sue enormi ricchezze petrolifere, si può permettere un’instabilità politica anche prolungata senza che ciò provochi danni sociali irreversibili.

 

Il Cairo, invece, con i suoi sei milioni di abitanti solo nella periferia meridionale della città, non ha queste possibilità perché il “petrolio egiziano” consiste nel turismo e nel suo enorme indotto. El Baradei ha ragione, dunque: “la Sharia non dà da mangiare”. Ma, quel che è peggio, spaventa i turisti occidentali. Ancora qualche anno e la sabbia potrebbe coprire pezzi consistenti delle piramidi  e dei monumenti delle Valli dei Re e delle Regine di Luxor.

 

L’Egitto deve ad ogni costo trovare il modo di riaprirsi all’esterno e i Fratelli Musulmani hanno ormai dimostrato di non essere capaci di un dialogo proficuo con l’Occidente e con i suoi turisti, che per tanti anni hanno portato ricchezza nel Paese. 

 

Le mosse dell’esercito
Così, alla fine, l’unica istituzione a vincere è ancora una volta il potente esercito. I militari hanno già ottenuto ciò che volevano: nel sistema costituzionale è stato infatti incorporato il loro sistema giuridico e sono stati mantenuti i loro privilegi. Non solo, l’articolo 198 lascia intatta la possibilità ai militari di giudicare i civili a loro discrezione. Ma questo era prevedibile. Perché, in fondo, sono loro che hanno provveduto alla destituzione di Hosni Mubarak e che oggi garantiscono l’ordine pubblico. Così come furono loro a destituire il re Faruq, a sostenere Nasser, a perseguire la Fratellanza, a difendere Sadat e a fronteggiare Israele in ben tre guerre. E non si può immaginare un equilibrio nel Paese senza l’esercito. Né si può escludere che sollevino davvero dal suo ruolo lo stesso Morsi - il quale si è dimostrato incapace di divenire il nuovo faraone - nel momento in cui la situazione si farà ancor più tesa.

 

Meglio per l’esercito (ma, soprattutto, per il Paese) sarebbe temporeggiare e predisporre una futura vittoria alle urne, capitalizzando il consenso e facendolo convergere su un candidato gradito, senza sparare un colpo. L’Italia del dopoguerra e del post-dittatura, pur distrutta e divisa, ha saputo contenere, anche dopo l’attentato a Togliatti, le proprie divisioni per un bene superiore. Sapranno l’Egitto e il suo capo di stato maggiore delle Forze Armate essere parimenti responsabili? Il problema è ormai solo il fattore tempo: la crisi economica, sociale e politica egiziana è vicina al punto di non ritorno. E l’ultimatum scade oggi alle 16 e 30.

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Luciano Tirinnanzi