Iran
(Ansa)
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Stop al velo obbligatorio ed alla Polizia Morale; l'Iran apre alla libertà

Le proteste di queste ultime settimane hanno creato le prime falle nell'ormai antico regime degli ayatollah che provano a salvarsi

Di fronte alla enorme portata delle proteste in Iran, il governo degli ayatollah corre ai ripari e si fa più «sensibile», o meglio «flessibile». I segnali che evidenziano l’apparente resa alle richieste della piazza sono due. Che, se confermati, sono entrambi di sostanza: il primo segnale è l’abolizione della polizia morale, l’istituto al centro dei vergognosi omicidi di giovani donne ree di non aver portato l’hijab (il velo islamico) in modo consono alla legge; il secondo è l’apertura del parlamento verso l’abolizione o quantomeno la modifica dell’obbligo stesso d’indossare il tradizionale copricapo.

«Se una legge è ingiusta, un uomo non ha solo il diritto di disobbedire, è suo dovere farlo» disse un giorno Thomas Jefferson, riflettendo sui nascenti Stati Uniti d’America. Ora questo principio, questa filosofia politica intrisa di spirito libertario, potrebbe valere anche per la giovane Repubblica islamica. E, per quanto stridente con una teocrazia liberticida qual è l’Iran degli ayatollah, il clero sciita al potere farebbe meglio a prenderne atto, se intende sopravvivere a lungo e, soprattutto, se vuole che si plachi l’onda lunga della riscossa femminile che oggi guida la ribellione più grande che si sia vista nel Paese dal 1979 in avanti.

Peraltro, stando a un sondaggio commissionato proprio dalla Guida Suprema all’agenzia stampa di regime Fars, oltre il 65% della popolazione è contro l’obbligo del velo, che viene considerata una norma della tradizione ormai superata dai tempi.

Pare, insomma, che qualcosa nei palazzi del potere si stia davvero muovendo, se è proprio dalla voce viva del procuratore generale delle Repubblica, l’ultraconservatore Mohammad Javad Montazeri, che viene l’apertura concreta alla possibilità di abolire questa legge anacronistica, e così anche lo smantellamento della polizia morale. Parlando in pubblico nella città sacra di Qom, Montazeri lo ha dichiarato di fronte alle autorità religiose.

Certo, ancora non vi è alcuna garanzia che queste mosse siano sufficienti a fermare le proteste, che proseguono incessanti in ogni angolo d’Iran sin da quando la giovane studentessa Mahsa Amini è stata colpita a morte dalla polizia morale lo scorso 13 settembre. Di certo, è però un segno evidente della volontà di cedere da parte del governo, considerato che né gli ayatollah né i guardiani della Rivoluzione sanno più che pesci prendere. La repressione, l’unico strumento concepito nei palazzi di potere a Teheran, infatti, non funziona. O comunque non basta più.

«Solo perché il governo ha deciso di smantellare la polizia morale non significa che le proteste finiranno», è una delle tante dichiarazioni di giovani iraniane raccolte dalla BBC in strada. «La gente sa che l’Iran non ha futuro con questo governo al potere. Vedremo sempre più persone appartenenti a diverse fazioni della società iraniana, moderata e tradizionale, scendere in campo a sostegno delle donne per riavere i loro diritti».

Insomma, giù il velo e via la polizia morale non sembrano riforme minimamente in grado di placare la rabbia dei manifestanti, che vedono per la prima volta una breccia nel potere assoluto degli ayatollah e intendono sfruttarla per far crollare direttamente il regime. «La nostra è una rivoluzione. L’hijab è stato l’inizio e non vogliamo niente di meno, se non la morte del dittatore e un cambio di regime» è il tono con cui molti commentano l’apertura del governo alle richieste della piazza.

C’è poi da dire che anche le forme contano: non è ad esempio ancora chiaro chi in concreto debba sciogliere la polizia morale, se la magistratura o il parlamento. Interverrà direttamente la Guida Suprema Ali Khamenei? Difficile crederlo.

L’Iran ha avuto varie forme di «polizia morale» sin dalla Rivoluzione islamica del 1979; l’ultima versione, nota formalmente come Gasht-e Ershad, era nata nel 2006 per far rispettare il codice di condotta islamico iraniano, ma si è presto tramutata in una sorta di agenzia della repressione di ogni dissenso, che ha fatto dello spionaggio e della delazione i cardini del proprio potere. Questo ha creato fratture nella società e odio crescenti verso il potere centrale, ed è degenerata quando l’anarchia e l’impunità dei poliziotti hanno preso il sopravvento sulla legge stessa.

Ma, ancora, guardare all’hijab e alla buoncostume come soluzione della crisi, è osservare il dito e non vedere la luna. Se la leadership iraniana si è finalmente accorta della perdita di legittimità legata all’uso della violenza, è solo perché ha compreso che una larga parte della popolazione non si accontenta più di riforme modeste, all’insegna di ciò che in Italia chiameremmo «gattopardismo». Cioè, una che cambia l’apparenza per mantenere la sostanza. E difatti le riforme promesse (e solo promesse, per il momento) parlano agli indecisi, a coloro i quali non sono ancora scesi in piazza, e sui cui Teheran conta per evitare una guerra civile.

«È vero che se viene abolita quella legge è una sorta di vittoria – ha dichiarato in proposito Azar Nafisi, l’autrice del libro denuncia Leggere Lolita a Teheran – ma non è quello che i manifestanti stanno chiedendo. Non dicono di abolirla o di essere più flessibili sull’hijab. Dicono: “Non vi vogliamo”. Lo scontro con il regime è legato al fatto che i manifestanti non vedono alcun futuro per se stessi nel sistema. Hanno bisogno di un nuovo sistema nel quale poter creare il proprio futuro».

Ecco il punto, allora. È pensabile una Repubblica islamica dove al governo non vi siano più gli ayatollah? È immaginabile un Paese che fa parte dello Shanghai Cooperation Organization (SCO) e legato a doppio filo a Russia e Cina, e in parte anche India, Pakistan e Qatar, dove non comandi una dittatura?

Si può pensare che prenda una via democratica una nazione che ambisce a diventare una potenza nucleare per dominare il Medio Oriente? Che conduce una guerra per procura in Yemen e che ha nell’Arabia Saudita, nello Stato di Israele e negli Stati Uniti i suoi grandi avversari? Ma soprattutto, possono permettersi gli alleati di Teheran di perdere una pedina così importante nello scacchiere geopolitico?

A queste domande la Guida Suprema e i Guardiani della Rivolzuione dovranno dare presto delle risposte, anche se invero non sembrano ancora prendere sul serio l’ipotesi di fine prematura del loro dominio sull’antica Persia. Se è vero che, come diceva Alessandro Manzoni, «non sempre ciò che viene dopo è progresso», è altrettanto vero che la dittatura stessa è però uno stato di eccezione. E presto o tardi anche gli ayatollah dovranno fare i conti con la Storia.

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Luciano Tirinnanzi