Londra
(Ansa)
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Londra, grigia, dopo la Brexit

Reportage dalla capitale britannica alle prese con i problemi legati alla scelta di lasciare l'Europa

Londra balla da sola. Nei giorni delle celebrazioni del 75esimo anniversario del Commonwealth - associazione che riunisce 54 Stati membri e un totale di circa 2,6 miliardi di persone - qui a Londra l’attenzione è rivolta a ben altro. La notizia della foto «taroccata» di Kate Middleton, moglie del futuro re William, impera. Media e sudditi di Sua Maestà non parlano praticamente d’altro e il clamore suscitato dalla «notizia» - suffragato dai timori pur legittimi per la salute di Kate (e, per estensione, anche per quella di Re Carlo III) - ha oscurato persino i festeggiamenti della giornata internazionale che si è tenuta al parlamento di Westminster, dove nel frattempo si discuteva di tecnologia digitale (alla Camera dei Lord) e di fondi per la Difesa (alla Camera dei Comuni), in un contesto politico tra l’austero e l’annoiato, ma pur sempre solenne secondo il tipico stile british.

In ogni caso, il clima generale che si respira per le strade della capitale riflette il grigiore che da qualche tempo incombe sul Regno, sempre meno punto di riferimento per alleati e partner economici, e sempre più ripiegato su se stesso. Forse anche per questo gli inglesi preferiscono volgere lo sguardo ai tabloid più che all’orizzonte. Che è successo allo spirito inglese? Che ne è della memorabile Swinging London? Che fine hanno fatto l’ottimismo e l’edonismo del secolo passato?

Dopo la Brexit e la morte della regina Elisabetta II, l’Inghilterra sembra aver perso l’anima ed è come se ogni punto di riferimento d’un tratto fosse scomparso: la monarchia appare «malata», gli scandali si susseguono al ritmo delle crisi dei governi, con premier deboli che si alternano in finestre di tempo sempre più ristrette.

Nessuno sembra abituarsi all’idea che una certa instabilità sia il segno dei tempi e i politici nascondono male l’incapacità di tenere insieme il Paese e accompagnarlo verso questa consapevolezza, cosicché tra la popolazione monta l’insofferenza e, in alcuni casi, anche la frustrazione. Il che ci riporta all'economia, che non solo registra da anni un significativo rallentamento della crescita, ma segnala ormai un disagio persistente legato alle difficoltà sempre più diffuse tra la popolazione, che non arriva serenamente a fine mese in quote sempre più consistenti. Il che inevitabilmente si rifletterà nella tornata elettorale che si approssima: secondo il premier Rishi Sunak le elezioni politiche si terranno già nella seconda metà di quest’anno. Intanto, il Regno Unito è ufficialmente in recessione tecnica: dopo il -0,1% del terzo trimestre 2023, il quarto trimestre dell’anno si è chiuso con un calo del Pil pari al -0,3%, ribasso che indica una fase di stagnazione da cui Londra non riesce più a risollevarsi.

Di certo, in seguito alla scelta di uscire dall’Unione Europea il Paese ha perso decine di migliaia di professionisti e manovalanza europea, cosa di cui ogni cittadino si lamenta («non si trova più neanche un idraulico o un muratore che sappia fare il proprio mestiere» dicono). Così come i prezzi sono andati alle stelle e tanto il settore pubblico come il privato faticano a far fronte agli aumenti sconsiderati, che a cascata pesano sui consumi. Non solo i trasporti sono sempre più cari, ma il carrello della spesa si svuota e persino i pub - simbolo di una certa cultura e spensieratezza tipicamente British - iniziano a svuotarsi di giovani, da quando il prezzo di una pinta di birra è lievitato, al punto che adesso i locali scelgono di servire marche italiane e olandesi (sic!) e anche in centro i pub scelgono di chiudere un paio d’ore prima del solito per compensare la penuria di clienti, in fuga da un costo della vita che si è tremendamente innalzato.

Per quanto la capitale resti un cantiere continuo con le immense gru che ancora si stagliano sullo skyline, il mercato immobiliare è fermo da troppo tempo: nell’immenso centro cittadino comprano quasi solo arabi facoltosi e russi, che restano tra i pochi a potersi permettere di pagare cifre che gli inglesi non possono più; e però questi paperoni stranieri non abitano davvero a Londra. Il che fa sì che i prezzi non scendano comunque, e dunque Londra si svuota progressivamente diventando sempre meno attrattiva e sempre più «un gioco per soli ricchi». Persino Harrod’s, la mecca dello shopping di lusso britannico, è cambiata: circondata da scritte arabe, nei suoi dintorni si regalano copie ben rilegate del Corano e il centro commerciale parla ormai a una clientela mediorientale e asiatica ristretta e presuntuosa, che è anni luce lontana dallo stile british che ha accompagnato il nostro immaginario per decadi.

Persino la potente London Stock Exchange, la borsa della City, subisce contraccolpi rilevanti, con l’attività delle Ipo (Initial Public Offering, titoli azionari da offrire agli investitori) che nel 2023 è diminuita del 40% in termini di proventi e del 49% in numero di quotazioni. E in ogni caso il modello resta piramidale: la ricchezza espressa dalla finanza londinese non ricade a sufficienza su Londra e tantomeno nel resto del Paese.

Così, a dare qualche speranza per il futuro dell’Isola oggi restano quasi esclusivamente gli immigrati, che però si percepiscono temporanei e non si identificano necessariamente con la bandiera inglese. Dopo la Brexit, parimenti a una fuga degli europei si è verificato un significativo aumento di stranieri provenienti da Paesi extra Ue: in particolare da India, Nigeria, Cina, Pakistan e Ucraina, per un totale di circa 750 mila unità nel 2022 e altrettante nel 2023. Secondo i dati dell’Office for National Statistics, il 39% degli extracomunitari è arrivato qui per motivi di studio, il 33% per lavoro, il 9% per ragioni umanitarie. Con questo ritmo, entro il 2026 la popolazione inglese salirà a quota 70 milioni rispetto ai 67 odierni, il che con ogni probabilità inciderà negativamente su un sistema sanitario e sociale che sono già ampiamente sotto il livello di standard che si richiederebbe a un Paese evoluto.

Ciò nonostante, il lavoro manca e così anche gli alloggi: oggi si costruiscono la metà delle abitazioni del secolo passato, per dire, con l’evidente conseguenza del sovraffollamento, dell’aumento dell'inflazione e anche della crescita del divario sociale, che si riflette nell’illegalità percepita e nella crescita di una criminalità sempre più diffusa in tutto il Paese.

Ad animare la capitale e a offrire ancora un po’ di allegria e know how, oggi a sorpresa sono gli italiani, che hanno superato i polacchi come numero di immigrati e che, differentemente che in passato, vengono bene accolti: secondo l’Istat inglese sono 280 mila i nostri connazionali residenti nel Regno, mentre il numero effettivo di «temporanei» è addirittura il doppio. Anche grazie a loro, Londra come le città minori sono un po’ più sorridenti.

Lo abbiamo constatato di persona recandoci all’Istituto di Cultura Italiana, la cultural powerhouse che ha il compito di promuovere la cultura del nostro Paese nella società inglese. Attualmente è ben diretta da Francesco Bongarrà, che quasi giorno organizza eventi di spessore che popolano l’altrimenti smorta Belgrave Square - l’elegante piazza dai tipici edifici bianchi dove affacciano numerose ambasciate, che circondano il parco privato al centro del quadrilatero - in controtendenza con gli eventi cittadini che ormai si reggono soprattutto sul turismo di passaggio e sui musical di Soho.

L’ultimo appuntamento degno di nota dell’Istituto è stata la presentazione del libro "Operazione Satellite" (Paesi Edizioni, 2023), opera del giornalista Frediano Finucci, tradotto anche in inglese, che ha messo a confronto esperti di politica internazionali, scienziati, diplomatici e rappresentanti di prestigiosi think tank britannici. Il saggio di Finucci dedicato allo spazio e alle tecnologie satellitari è stato accolto con grande interesse anche al Defence Studies Department, che fa parte al contempo del King’s College e dell’Accademia di Difesa interforze del Regno Unito, dove si offre formazione professionale di livello mondiale in materia di difesa e sicurezza ai rappresentanti delle forze armate britanniche e al personale proveniente dall’estero. Qui si formano i futuri ufficiali di esercito, marina e aeronautica, secondo «quello spirito di collaborazione che si rivelò così essenziale per il successo, sul campo di battaglia, durante la Seconda Guerra Mondiale».

L’Accademia della Difesa si trova nella campagna inglese intorno a Swindon, un’area piuttosto depressa e dall’aspetto fatiscente a Ovest della capitale. Qui s’incontrano e studiano fianco a fianco ufficiali indiani e pakistani, sauditi ed emiratini, africani ed europei, per imparare l’arte della guerra secondo l’Impero britannico. Ovviamente, ci sono anche gli italiani e uno di questi, il professor Michele Groppi, che si occupa di studi della difesa per il King’s College e dirige il think tank ITSS di Verona, è una delle più giovani e brillanti personalità che animano il campus.

Ma, a bene vedere, anche questo tempio dell’arte della guerra è specchio del Regno Unito di oggi: un Paese che sembra rivolto ancora ai fasti del passato, nostalgico della gloria imperiale che fu e che vive come una sorta di fastidio il cambiamento tutt’intorno a esso.

L’orgoglio e le grandi qualità che hanno sempre contraddistinto gli inglesi restano, ovviamente. Ma sono come appannate, e l’impasse politico-economico così come i guai della Corona ne sono la più crudele dimostrazione. Vero è che in questi giorni, tra gli appuntamenti del Commonwealth, la partecipatissima London Book Fair e altre iniziative di respiro mondiale, Londra resta una destinazione ancora ambita e mantiene chiara la propria vocazione internazionale. Ma com'è vero che nessuno più difende la scelta della Brexit (termine ormai associato a imbarazzo, almeno nella capitale), è vero anche che il Regno Unito non riesce a mettersi quella scelta alle spalle e ripartire proiettandosi con grinta nelle sfide che attendono il futuro dell'Europa intera. Lo smarrimento seguito alla fine di un’epoca e al distacco dal continente pesano ancora troppo, forse. Il motto Keep calm and carry on non è mai stato tanto necessario per gli inglesi come adesso.

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Luciano Tirinnanzi