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Un membro di Hezbollah durante il funerale, il 15 ottobre, di alcuni militanti morti durante gli scontri a Beirut (Getty Images).
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Fallita l'intimidazione, Hezbollah resta il dominus del Libano

Dopo aver invano cercato di fermare il giudice che indaga sull'esplosione di un anno fa al porto di Beirut, il Partito di Dio è a un bivio. Dalle sue prossime scelte dipenderà il futuro del Paese. E del migliaio di soldati italiani della missione Unifil.

«Con gli scontri del 14 ottobre, Hezbollah ha provato a fermare il magistrato Tarek Bitar che sta indagando sull'esplosione al porto di Beirut l'anno scorso.Ma l'operazione non gli è riuscita». L'ambasciatore Armando Sanguini spiega i retroscena della manifestazione sciita che la scorsa settimana ha messo Beirut a ferro e fuoco, provocando sette morti. E cerca di capire quali sono le prospettive del tormentato Paese medio-orientale. Grande conoscitore del mondo islamico (che ha visto da vicino, nei lunghi anni in missione dalla Tunisia all'Arabia Saudita), il diplomatico è ora un consulente dell'Ispi, l'Istituto per gli Studi di Politica internazionale di Milano. Panorama.it lo ha intervistato.

Che cosa sta succedendo in Libano?

«Tutto è partito dalla decisione del procuratore generale Tarek Bitardi fare chiarezza sui responsabili della catastrofe dell'anno scorso: l'esplosione al porto di Beirut che il 4 agosto 2020 ha causato almeno 215 morti, per non parlare dei feriti e delle distruzioni. A fronte di questa minaccia processuale, che vede coinvolti anche dei ministri, Hezbollah, una formazione politica di derivazione dei Pasdaran iraniani, ha accusato apertamente Bitar di essere un magistrato venduto, pagato dagli americani per incolpare degli innocenti».

Non è così, vero?

«Certo. In realtà Bitar è persona assolutamente stimata e stimabile, che non guarda in faccia a nessuno e che vuole portare avanti il suo processo. Tra l'altro, la marcia organizzata il 14 ottobre da Hezbollah e Amal per le strade di Beirut, soprattutto nel punto che divide l'area sciita da quella cristiano-maronita, ricorda un passato molto triste della storia libanese».

La guerra civile, durata dal 1975 al 1990...

«Esatto. Su quella manifestazione stanno venendo fuori degli altri particolari, tra i quali il fatto che i famosi cecchini, che dai tetti sparavano sui manifestanti, in realtà si mescolavano ai militari di fede Hezbollah, che sparavano sulla folla e distruggevano negozi. La cosa fondamentale è che Hezbollah vorrebbe chiudere la bocca al procuratore Bitar ed evitare che il processo abbia uno svolgimento regolare».

Ma qual è la compromissione del Partito di Dio con l'esplosione?

«I personaggi coinvolti fanno riferimento anche a Hezbollah. Diciamo che fanno riferimento al sistema di potere libanese, su cui Hezbollah esercita un potere quasi assoluto. Il movimento sciita si sentiva bersaglio di questa operazione giudiziaria e quindi la voleva fermare».

Quella di Hezbollah è insomma una responsabilità politica?

«È chiaro che il movimento ha una responsabilità politica. Su questo non ci piove. Hezbollah vuole evitare che l'indagine su persone che fanno riferimento all'organizzazione (parliamo anche del ministro delle Finanze) possa andare avanti».

A che punto sono le indagini?

«Il procuratore ha emesso dei mandati a comparire, anche a un paio di ministri legati a Hezbollah. Il passo successivo sarebbe stato quello di averli alla sbarra».

Di fatto quella di Hezbollah è stata un'intimidazione contro il giudice?

«È la parola giusta: intimidazione, ma intimidazione robusta. Non dimentichiamo che Hezbollah ha in larga misura il controllo del Paese, è legato all'Iran, è legato ovviamente alla Siria. Quindi è stata un'operazione che voleva chiudere la bocca a un magistrato che vuole semplicemente scoprire la verità. È stato un atto molto grave».

E come si somma questa vicenda giudiziaria al tracollo finanziario che sta sperimentando il Libano?

«Questo è un Paese che è sprofondato ormai da qualche anno nella crisi più nera. Ed è una crisi che ha nella Banca centrale libanese uno dei massimi responsabili. Per cui c'è inflazione galoppante e penuria di generi alimentari. Abbiamo visto tutti le immagini di una Beirut al buio per mancanza di elettricità. Quindi abbiamo una popolazione che comincia a reagire, sia pure con paura. C'è poi un'insofferenza che cresce e Hezbollah che viene indicato come il massimo responsabile di questa gestione del Paese. In realtà è una responsabilità che discende direttamente da quest'assurdo, complessissimo meccanismo di divisione del potere in base all'appartenenza religiosa: agli sciiti certe cariche, ai sunniti altre... Quindi Hezbollah, che già avverte una disaffezione di una parte della popolazione, avverte in questo processo un elemento in più che potrebbe indebolirlo, per cui agisce come ha sempre fatto. Vale a dire con l'intimidazione, con la forza, con la violenza. So che, questa volta, quello che si aggiunge a tutto ciò è il cambiamento di posizione dell'opinione pubblica, che comincia a girare le spalle a Hezbollah. E questo per l'organizzazione è inaccettabile: ne ha paura».

Lo scontro giudiziario è dunque stato l'ultimo di una lunga serie di episodi?

«Esatto. Ed è avvenuto in un Paese che non è sull'orlo del precipizio: ci è già finito dentro. Sotto il profilo economico, finanziario, monetario... L'inflazione è alle stelle. Quindi la situazione è veramente molto difficile. Tanti libanesi stanno scappando dal Paese: non si trovano più i generi alimentari e le medicine... In questo clima è chiaro che la principale forza politico-militare (Hezbollah è uno Stato nello Stato), vedendo che il suo dominio comincia a mostrare delle crepe, ovviamente non intende lasciare che le cose peggiorino. Però quello che sa fare è usare la violenza, quella che poi ha usato in tutto il Medio Oriente al soldo dell'Iran».

In sintesi, lei dice: «Poiché Hezbollah vedeva che il suo potere iniziava a incrinarsi, ha mostrato i muscoli»?

«Esatto».

E ha raggiunto l'obiettivo?

«Secondo il mio giudizio, no. Perché credo che al libanese medio interessi scoprire la verità dell'eccidio che nell'agosto 2020 ha sconvolto Beirut. Il fatto che si voglia impedire a un magistrato di fare il suo dovere per forza scuote pure il più servile dei libanesi. Anche il Parlamento europeo nei giorni scorsi si è pronunciato per dire che forse occorre lanciare a questa forza politica un messaggio molto chiaro, dicendo che la situazione comincia a sfiorare non solo l'illegalità, ma anche il crimine. Vediamo ora cosa fa l'Unione europea, anche perché c'è un nuovo governo».

Guidato dal primo ministro Najib Mikati.

«Questo signore sicuramente non è estraneo alla struttura del potere. E quello che è in crisi vera in Libano è proprio il sistema politico settario, su cui è appoggiato. Ma ho l'impressione che ci siano dubbi molto seri sul fatto che il nuovo premier possa riuscire a invertire la rotta. Vediamo come va a finire con il Fondo monetario, che finalmente è stato interpellato per avere un prestito importante. Si tratta di vedere nelle prossime settimane quello che ne viene fuori. Il tempo è quello che è. Il Paese sta andando a rotoli e questo vuoto di potere non è sicuramente la medicina migliore. Bisogna seguire la cosa e forse come mondo occidentale incoraggiare chi ne ha la forza e le qualità affinché si pensi a una svolta politica politica degna di questo nome per far uscire il Paese da questa spirale che sembra non finire».

In che rapporti è il nuovo premier con Hezbollah?

«Apparentemente non ha nulla a che vedere. È un ricchissimo imprenditore, che come altri personaggi di spicco del mondo libanese è parte del sistema. E, ricordiamolo, è un sistema che ha dilapidato il Paese. Mikati è parte del sistema che viene condannato. Ma non sarebbe la prima volta che qualcuno che non ha risorse politiche degne di questo nome, se non la sua ricchezza personale, riesca a dare una svolta al Paese. Oggi il Libano ha assoluto bisogno di trovare un ubi consistam economico, sociale e sanitario perché il Covid, tra l'altro, è stato una legnata molto forte».

Ma di fatto questi anni di relativa tranquillità, rispetto a quelli sanguinosi della guerra civile, non sono anche stati garantiti da Hezbollah?

«Certamente!»

Quindi se Hezbollah crolla, che cosa succede?

«Hezbollah però non crolla. Io ho parlato di incrinatura del consenso. Ma da lì a parlare di crollo di Hezbollah, ne passa molto. Hassan Nasrallah, il grande ayatollah, deve rendersi conto che la politica dell'intimidazione non è la migliore, ma siamo lontani mille miglia dall'idea che possa crollare».

Il pallino è sempre in mano a Hezbollah, dunque?

«Certo. Anche perché ha una capillarità di potere, costruito in questi anni difficile, da smontare. A meno che, appunto, lo stesso Hezbollah non ritenga necessaria una correzione di tiro, non foss'altro che estetica, per favorire una svolta nel Paese».

La speranza perciò è che Hezbollah si moderi? Anche perché, senza Hezbollah, il Paese torna alla guerra civile...

«Su questo non c'è dubbio. Secondo me, lo spettro della guerra civile è forse il freno più forte a che Hezbollah non continui con questo metodo. E la difesa dimostrata al procuratore è in sé un elemento molto positivo. Perché, nonostante tutto, Tarek Bitar continua nella sua azione processuale».

Ma chi ha difeso il procuratore? L'opinione pubblica?

«L'opinione pubblica, ma soprattuto il mondo della magistratura libanese. È una persona su cui non è lecito avere dubbi sul piano della trasparenza. Bitar sa di avere degli appoggi seri: all'interno e all'esterno. Perché l'intimidazione di Hezbollah è stata commentata da tutto il mondo. E i militanti di Hezbollah non sono degli sprovveduti».

Allora bisogna aspettare la prossima mossa di Hezbollah.

«Già... A questo punto Hezbollah è chiamato a una prova di intelligenza, che dovrebbe esprimere».

E i nostri mille soldati? Anche i caschi blu italiani dell'Unifil sarebbero a rischio, se la situazione non dovesse risolversi...

«Chiaro che se il Paese entra nella spirale di una nuova guerra civile, che nessuno auspica, anche il contingente italiano potrebbe averne dei riflessi. In realtà abbiamo interesse a che la situazione ritrovi una sua stabilità anche perché il Libano è un pezzo del Medio Oriente estremamente sensibile, tenendo conto anche solo dei Paesi che gli stanno attorno. È nell'interesse della stabilizzazione del Medio Oriente intero che il Libano si consolidi».

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Elisabetta Burba