Iran
(Ansa)
Dal Mondo

L'Iran nella protesta per il velo, le violenze alle donne e la crisi economica

Teheran e non solo sconvolta dalle manifestazioni dopo l'uccisione di Mahsa Amini dentro la quale c'è il malcontento più profondo di un paese intero

Pensavano di dover trattare con l’Onu sul ricorso all’energia nucleare, e invece gli ayatollah iraniani si ritrovano a gestire le ciocche dei capelli delle femministe. Già, perché l’Iran è uno dei pochi Paesi al mondo dove l’utilizzo dell’hijab – sbrigativamente, il velo che copre la capigliatura femminile – è obbligatorio e imposto per legge (un altro è l’Afghanistan, per dire). E dunque guai a levarlo in pubblico, o indossarlo in maniera anche solo inappropriata.

Che poi sarebbe quanto accaduto alla sfortunata Mahsa Amini, una studentessa di appena ventidue anni, arrestata dalla «polizia morale» lo scorso 13 settembre a Teheran, perché non indossava correttamente il capo e deceduta dopo tre giorni di coma per i maltrattamenti subiti. «Uno sfortunato incidente» lo ha definito il capo della polizia di Teheran, generale Hossein Rahimi, asserendo che la ragazza sia morta per infarto e non invece per le percosse. Il che ha comprensibilmente infiammato le piazze del Paese, dove da giorni i giovani si riversano per protestare contro il governo.

La «polizia morale» sarebbe l’unità delle forze di sicurezza iraniane, responsabile tra l’altro dell’applicazione del codice sharaitico per le donne. Una sorta di «buoncostume» di novecentesca memoria dalle nostre parti, di quando cioè in Italia la Chiesa cattolica influiva ancora pesantemente nella politica e nelle nostre regole sociali.

In Iran, dalla rivoluzione khomeinista del 1979 in poi, la spinta al conservatorismo e alla rigida applicazione della legge della Sharia sono invece pane quotidiano e strumento di coercizione al tempo stesso. Al punto da mandare al creatore giovani innocenti, solo per un eccesso di zelo da parte dei tutori della legge. Anche perché la Repubblica Islamica iraniana è in pratica una teocrazia – o comunque uno Stato dichiaratamente confessionale – dove l’ayatollah (oggi Ali Khamenei) è massima autorità politica, religiosa, e dunque anche morale. Se non altro perché la costituzione gli conferisce il ruolo di Guida Suprema, e a lui spettano tra le altre cose la nomina dei candidati alla presidenza, al governo e il comando delle forze armate.

L’esplosione delle proteste

Violenze come quelle riservate a Mahsa Amini sono perciò all’ordine del giorno nel baluardo della rivoluzione khomeinista. Specie da quando il presidente Ebraihim Raisi ha ordinato una stretta reazionaria, incentivando le forze dell’ordine a operare una più rigida applicazione dei costumi nazionali. A cominciare proprio dal velo, che negli anni aveva cominciato a essere gestito dalle donne in maniera meno restrittiva (in particolare nelle grandi città), a voler significare che i tempi sono cambiati e che non c’è niente di male ad allargare giusto un po’ le maglie della Sharia.

Ma nei palazzi del potere di Teheran – dove un’élite religiosa e militare governa 80 milioni di persone a colpi di imposizioni, temendo golpe e ingerenze esterne a giorni alterni – simili gesti sono letti dalla casta confessionale come un progressivo decadimento dei costumi, anticamera di una rivolta laica e anticlericale che sarebbe facile strumento della propaganda occidentale.

E difatti sui social media circolano migliaia di video di dimostranti che urlano slogan contro il governo, di donne che si tagliano i capelli o bruciano direttamente il velo, e che provengono da ogni provincia del Paese: Alborz, Azerbaigian orientale, Fars, Gilan, Golestan, Hormozgan, Ilam, Isfahan, Kerman, Kermanshah, Kurdistan, Mazandaran, Qazvin, Razavi Khorasan, Azerbaigian occidentale e la stessa Teheran. In alcuni casi, negozi e bazar sono persino rimasti chiusi in segno di protesta.

Le violenze di piazza aumentano con il passare dei giorni. Difficile dare dei numeri precisi, viste le restrizioni e la censura operata dagli iraniani; ma sarebbero già oltre 300 i manifestanti sinora arrestati, e i morti non meno di una decina. Di certo tutto questo avviene in un momento assai delicato per il governo iraniano, che proprio in queste settimane sta trattando con le Nazioni Unite per ottenere un nuovo accordo sul nucleare.

Il dossier nucleare e il Libano

L’Unione Europea si è espressa favorevolmente per il ripristino della road map tracciata nel 2015 da Barack Obama: «La conclusione di un accordo al più presto è nel nostro comune interesse» aveva detto per bocca del presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, solo pochi giorni fa. Ma c’è da giurare che l’esplosione delle proteste e la reazione scomposta del governo iraniano possano complicare l’iter.

Inoltre, non va tanto di moda oggi il nucleare, se lasciato in mano ai regimi autoritari. Dopo le provocazioni della Corea del Nord di Kim Jong Un, ma soprattutto dopo che Vladimir Putin si è convinto di avere mano libera in Ucraina anche sull’uso dell’arma atomica (come soluzione agli insuccessi sul campo di battaglia), in Occidente la parola «nucleare» viene ormai direttamente associata a «minaccia».

Ne sanno qualcosa gli israeliani: da quando sono ripartiti i negoziati tra l’agenzia per il nucleare dell’Onu (Aiea) e Teheran, Gerusalemme ha condotto cyberattacchi contro le istituzioni iraniane e attacchi veri e propri in Siria, dove Teheran ha schierato le milizie sciite a difesa dell’alleato di Damasco.

Ma c’è anche un’altra piazza sciita che ribolle e preoccupa gli ayatollah: è quella libanese, dove l’esercito è intervenuto a Beirut e in altre cittadine per disperdere centinaia di manifestanti che continuano a protestare contro il cartello delle banche libanesi, alcune delle quali fallite dal giorno alla notte, e le altre prese d’assalto da chi si è visto improvvisamente bloccare i conti corrente.

Si tratta della peggiore crisi finanziaria degli ultimi trent’anni, che ha portato la valuta libanese a perdere oltre il 90% del suo valore dal 2019. Se si aggiunge che, a causa del mancato arrivo dei cereali dall’Ucraina per la guerra (di cui il Paese importava oltre il 90%), il Paese dei Cedri è a rischio carestia; e se si considera che alle politiche dello scorso 15 maggio, gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah non hanno più la maggioranza politica, si capisce bene il rischio dell’effetto domino.

Effetto domino

Se poi si allarga il campo all’Iraq – dove la maggioranza sciita non riesce più a tenere a freno la minoranza sunnita – e al Kurdistan, si comprende meglio come il sogno imperialista persiano di creare un corridoio tutto sciita che da Teheran raggiunga Beirut via Baghdad e Damasco, sia ormai poco meno che utopia. Anche perché è improvvisamente venuto a mancare il perno di questo immane progetto: ovvero Mosca, impantanata in una guerra che drena ogni risorsa un tempo disponibile anche per gli alleati mediorientali.

Non saranno pertanto le proteste di giovani cittadini disarmati a fagocitare gli ayatollah e spingerli alla capitolazione. Ma già s’intravedono delle crepe nel monolite teocratico. E la soluzione a ogni problema cui Teheran ha abituato il suo popolo – reprimere, reprimere, reprimere – non potrà funzionare per sempre.

Neanche se la «generosità» iraniana riuscirà ad attenuare la penuria di gas per l’Europa e risollevare le rispettive economie: il regime è infatti pronto a convogliarne ingenti quantitativi, se l’accordo nucleare sarà ricostituito e le sanzioni revocate (l’Iran possiede le seconde riserve di gas naturale al mondo dopo la Russia).

Ma ci sono ancora troppi «se» e troppe persone in piazza perché tutto questo si realizzi per come lo hanno immaginato i guardiani della Rivoluzione. Alienato in una retorica dal sapore antico e sconnesso dalle esigenze del popolo, il regime con i suoi costumi sopravvivrà solo garantendo un futuro economico solido ai cittadini e la cessazione di avventure belliche inutili e dispendiose.

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Luciano Tirinnanzi