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(Daniela Lombardi)
Dal Mondo

L'inchiesta ferma sull'esplosione di Beirut agita la vigilia elettorale

A due anni dall'esplosione che segnò gran parte della capitale libanese la verità è lontana, e protetta da un muro di gomma imbottito di misteri

Silos sventrati, carcasse di auto sparse, parti di navi distrutte e ancora in via di recupero. Al porto di Beirut non sembrano passati quasi due anni dall’esplosione che ha sventrato la più importante via di commerci del Libano e sgretolato i principali palazzi della zona Est della capitale, precipitando nella catastrofe un Paese già attanagliato dalla crisi economica. L’odore è forte e pungente. “E’ l’odore del grano macerato che era conservato in alcuni dei silos”, ci viene spiegato. Ma la paura, con i polmoni che respirano a fatica e le mucose del naso che si irritano, è che nell’aria siano ancora disperse le sostanze, come il nitrato di ammonio, che non avrebbero dovuto essere stoccate al porto e sulle quali dovrà essere fatta ancora chiarezza.

L’argomento, alla vigilia delle elezioni, è materia di forti scontri. L’ingerenza politica è palese nella travagliata inchiesta che al momento è ferma e della quale i candidati preferiscono non parlare proprio a ridosso del voto. Cristallizzata appare la scena che si presenta al porto, visto che l’area è sotto sequestro e i luoghi non possono essere alterati. Per entrare, occorrono permessi speciali. Ma se in pochi possono accedere al sito, in tanti hanno chiesto che la situazione venga costantemente monitorata e che riparta l’iter giudiziario dell’accertamento della verità su quanto accadde davvero il 4 agosto del 2020.

L’associazione dei parenti delle vittime – che in quella devastante giornata furono 214 ma che continuano ad aumentare, perché ci sono feriti (almeno 7000) che poi si aggravano e persone che hanno contratto malattie respirando l’aria tossica del post esplosione – non ha mai smesso di protestare davanti ai palazzi della politica per chiedere giustizia. Purtroppo il motivo dell’esplosione è rimasto ancora indeterminato, poiché al momento del disastro erano immagazzinati, nell’area, diversi materiali e sostanze che avrebbero potuto determinare la deflagrazione. Un magazzino di fuochi d’artificio, un deposito di sostanze chimiche, uno di petrolio: diversi sono stati gli “imputati” durante il corso delle indagini. Ma più di tutto, sulla storia del porto di Beirut, pesa l’ombra della corruzione. Una vicenda torbida che lega il Libano all’Ucraina e alla Russia, come pure alla Siria.

Era una nave russa, pur se battente bandiera moldava, il MV Rhosus che cercava di raggiungere il Mozambico dalla Georgia. L’equipaggio era per la maggior parte ucraino e il carico era nitrato d’ammonio, principale “accusato” dell’esplosione. Per una serie di vicende complesse e per la dichiarata – da parte delle autorità libanesi - inidoneità alla navigazione del Rhosus, il suo carico fu sequestrato e stipato nell’hangar 12 del porto. Il materiale è stato subito ritenuto pericoloso e le strutture presenti non adatte alla sua conservazione, per questo numerose richieste di rimozione, di destinazione alle forze armate libanesi o, in alternativa, di esportazione, furono inviate ai giudici dalle autorità doganali, ma non ottennero risposta.

Sulla possibilità di arrivare alla verità la sfiducia è totale. “Non c’è la volontà politica di fare luce. Troppi legami oscuri e vicende di corruzione potrebbero venire a galla”, insinua un testimone che intende rimanere anonimo. La vicenda giudiziaria è infatti segnata da ingerenze politiche di non poco conto. I giudici che mettono mano a questa storia sembrano accomunati da un destino ineluttabile: vengono rimossi. Pochi mesi dopo la catastrofe, fu il giudice inquirente Fadi Sawwan ad essere allontanato dall’inchiesta. Si era messo in testa qualcosa che dava fastidio a qualcuno di importante. Voleva incriminare nomi di assoluto rilievo politico, non credendo che tonnellate di nitrato d’ammonio fossero state “dimenticate” nel porto dopo la decisione di confiscare quel carico: casualmente il 2014 era l’anno in cui Hezbollah combatteva, prima dell’intervento russo al fianco di Assad, battaglie decisive per la sopravvivenza del regime siriano, che cominciò proprio in quell’anno a impiegare i famigerati “barili bomba” per colpire la popolazione. Non sembra un caso se proprio da Hezbollah – che notoriamente controlla il porto di Beirut - sono arrivati i maggiori strali verso i giudici inquirenti: non solo Sawwan ma anche il suo successore Tarek Bitar sono stati accusati di non essere imparziali, di voler politicizzare la vicenda e dunque anche di Bitar è stata chiesta la rimozione (da parte, in questo caso, dell’alleato di Hezbollah, Amal, nelle persone di Ali Hasan Khalil, ex ministro delle Finanze, e Ghazi Zeaiter, deputato sciita).

Nell’attesa – che sembra sempre più lunga - di capire la dinamica dei fatti, mentre la politica rifugge ogni domanda, resta solo da ricordare che l’esplosione al porto ha creato il collasso definitivo dell’intero Libano, già provato dalla crisi economica. L'esplosione non ha devastato solo gli edifici portuali ma ha distrutto il sistema dell’import-export, ha danneggiato le abitazioni civili fino 10 km di distanza e lasciato senza casa fino a 300.000 persone. Circa 15.000 tonnellate di grano sono saltate in aria ed ancora scricchiolano sotto i piedi mentre si cammina sul molo, diffondendo l’odore nauseabondo che ristagna tutto intorno. Ma, forse, non è solo il grano ad esalare miasmi così sgradevoli e a far ammalare la gente che vive nei dintorni del porto.

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Daniela Lombardi