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(Ansa)
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Dubbi e incognite sulla perquisizione dell'Fbi a casa di Trump

Il Dipartimento di Giustizia si oppone alla pubblicazione dell'affidavit: l'unico documento che potrebbe fare effettivamente luce sull'impianto accusatorio degli agenti federali

Donald Trump è indagato per spionaggio”, così hanno recitato numerosi titoli giornalistici negli ultimi giorni, dopo la pubblicazione del mandato che ha permesso la perquisizione della villa dell’ex presidente da parte dell’Fbi la scorsa settimana. In realtà, sulla questione si registra un po’ di confusione che, nel limite del possibile, sarebbe il caso di chiarire. Senza poi trascurare i “dettagli” che, almeno al momento, non tornano in tutta questa vicenda. Ma andiamo con ordine.

Lunedì 8 agosto si è verificato un blitz dei federali nella dimora di Trump in Florida: un evento senza precedenti nella storia americana. Nessun ex presidente è infatti mai stato oggetto di indagini o perquisizioni: un fattore, questo, con cui si è cercato di salvaguardare le istituzioni dal rischio di politicizzazione (ricordiamo infatti che Richard Nixon ricevette il perdono da Gerald Ford nel 1974 sui fatti relativi al Watergate, mentre nel 2001 Bill Clinton strinse un accordo con l’Office of the Independent Counsel, per evitare di ritrovarsi incriminato in relazione al caso Lewinsky).

Dopo tre giorni di controverso silenzio, il procuratore generale, Merrick Garland, ha alla fine chiesto e ottenuto di desegretare alcuni dei documenti concernenti il raid: si tratta, in particolare, del mandato di perquisizione e della lista degli oggetti sequestrati. Due documenti indubbiamente significativi, ma anche piuttosto scarni. Manca invece l’affidavit: l’incartamento, cioè, con cui l’Fbi ha chiesto al giudice il mandato per perquisire la villa di Trump. Si tratta – attenzione – del documento principale, in quanto contiene l’ipotesi accusatoria dettagliata degli inquirenti. Eppure, nonostante tale importanza, il Dipartimento di Giustizia si è opposto alla sua pubblicazione, irritando così Trump e i repubblicani, che hanno invece chiesto trasparenza. Ora, va senz’altro riconosciuto che solitamente l’affidavit non viene pubblicato mentre l’indagine è in corso. Tuttavia, come abbiamo visto, la situazione è senza precedenti e, in particolare, rischia di avere degli impatti negativi sulle istituzioni americane. Senza poi trascurare che un rapporto dell’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Michael Horowitz, pubblicato nel dicembre 2019, rinvenne “inesattezze e omissioni significative” nell’indagine, condotta dall’Fbi tra il 2016 e il 2017, sulla presunta collusione (finora mai provata) tra Trump e il Cremlino. Ecco: alla luce di tutto questo, una maggiore trasparenza effettivamente non guasterebbe.

Ma torniamo ai due documenti desegretati. Per quanto riguarda la lista degli oggetti sequestrati, essa cita – tra le altre cose – anche dei materiali altamente classificati. Tuttavia non si conoscono al momento molti altri dettagli. Ciò su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione è quindi il contenuto del mandato, dove è stato succintamente riferito che Trump sarebbe sospettato di aver violato le sezioni 793, 2071 e 1519 del titolo 18 del codice degli Stati Uniti. Ora, tutti e tre questi dispositivi riguardano il possesso indebito, la manipolazione o la distruzione di documenti ufficiali. Ebbene, soltanto la sezione 793 si riferisce all’Espionage Act: una controversa legge del 1917 che, secondo un’analisi dello storico Daniel Larsen apparsa sul Washington Post lo scorso giugno, risulterebbe troppo vaga e, soprattutto, col passare dei decenni avrebbe visto mutare ormai il senso di alcuni suoi concetti chiave.

A tal proposito, vanno sottolineati due elementi. Primo: una eventuale violazione dell’Espionage Act non implica necessariamente attività spionistica. Trump, in altre parole, potrebbe essere sospettato soltanto di possesso indebito di documenti. Va da sé che il punto potrebbe essere chiarito dalla pubblicazione dell’affidavit: pubblicazione a cui tuttavia, come abbiamo visto, si è opposto il Dipartimento di Giustizia. Secondo: la sezione 793 fu invocata anche ai tempi dello scandalo Emailgate, che coinvolse Hillary Clinton nel 2016. Ebbene, pur a fronte di varie violazioni, il Dipartimento di Giustizia dell’era Obama rifiutò di procedere con l’incriminazione, sostenendo che non era dimostrabile che l’ex first lady e i suoi collaboratori avessero compiuto intenzionalmente quelle stesse violazioni. Un precedente, questo, a cui Trump potrebbe fare ricorso nella sua strategia difensiva (una volta chiarita la diatriba in corso per capire se avesse o meno il potere per declassificare i documenti sequestrati).

C’è poi un altro aspetto interessante che emerge dalla lettura del mandato di perquisizione. Se le prime due sottosezioni consentono la requisizione di materiale classificato, la terza permette di sequestrare “tutti i documenti governativi o presidenziali creati tra il 20 gennaio 2017 e il 20 gennaio 2021”. Una tale ampiezza sembrerebbe suggerire un’ipotesi accusatoria forse un po’ troppo vaga. Nuovamente, la pubblicazione dell’affidavit aiuterebbe a far luce. Infine, si scorge il problema della tempistica. Il contenzioso tra Trump e le autorità sulla questione dei documenti va avanti dallo scorso febbraio, da quando gli Archivi nazionali (all’epoca diretti da David Ferriero, nominato da Barack Obama nel 2009) hanno deferito il caso al Dipartimento di Giustizia. Tutto questo, mentre le ultime comunicazioni ufficiali antecedenti al blitz tra le autorità e il team di Trump risalivano alla prima metà di giugno. Una domanda quindi appare ineludibile. Se c’era tanta urgenza di recuperare questo materiale, sconfessando un precedente di oltre due secoli di storia, perché attendere agosto – nel pieno della campagna elettorale in vista delle Midterm – per effettuare la perquisizione?

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Stefano Graziosi