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Manifestazione a sostegno della comunità asiatica il 21 febbraio 2021 a Washington (Getty Images).
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Con il Covid gli asiatici negli Usa temono aggressioni per strada

Nell'America del 2021 gli americani di origine asiatica hanno paura a uscire di casa. Perché, come racconta la professoressa californiana Anita Chang, qualcuno potrebbe attaccarli per «aver portato il virus negli Stati Uniti»

Ad attirare l'attenzione planetaria sul fenomeno è stata la strage di Atlanta. Nella capitale della Georgia, il 16 marzo scorso Robert Aaron Long, 21 anni, ha ucciso a colpi di arma da fuoco otto persone, di cui sette donne. Sei delle vittime erano di origine asiatica, motivo per il quale gli investigatori hanno ipotizzato come possibile movente l'odio razziale. Dopo che l'aggressore ha negato di aver avuto una motivazione razziale, le autorità sono caute. Come riferisce la National Public Radio, in un rapporto sull'incidente del Dipartimento di polizia di Atlanta, gli agenti hanno spuntato «no» alla domanda se gli attacchi fossero un sospetto crimine d'odio. Eppure il 18 marzo la polizia ha detto che sta ancora indagando sul movente dell'aggressore.

Al di là delle motivazioni del killer, un fatto è certo: nell'ultimo anno, gli Stati Uniti stanno registrando un'impennata di crimini contro i singoli americani di origine asiatica, arbitrariamente accusati di «aver portato il virus negli Stati Uniti». Tanto che, il giorno dopo il massacro di Atlanta, il presidente Joe Biden ha detto: «Qualunque sia la motivazione, so che gli asio-americani sono molto preoccupati. Perché come sapete ho parlato della brutalità contro gli asio-americani negli ultimi due mesi, e penso che ciò sia molto, molto preoccupante».

Il presidente prende così sul serio la minaccia che il 19 marzo è volato ad Atlanta con la sua vice Kamala Harris. E parlando all'Emory University ha sottolineato: «Alcuni valori e convinzioni fondamentali dovrebbero unire gli americani», come «la lotta contro l'odio e il razzismo, il veleno che ha perseguitato e afflitto a lungo la nostra nazione».

Negli Stati Uniti, i crimini di odio contro gli asiatici si sono intensificati nel 2015, ma nell'ultimo anno il fenomeno è esploso. Fra insulti, minacce e aggressioni, sono stati quasi 3.800 gli «incidenti di odio» segnalati negli Stati Uniti contro gli americani di origine asiatica, l'11% dei quali attacchi fisici. A denunciarlo è Stop AAPI Hate, un'organizzazione fondata nel marzo 2020 per combattere la discriminazione durante la pandemia. Il primo gruppo etnico a denunciare questo tipo di attacchi è composto dai cinesi (42,2%), seguiti da coreani, vietnamiti e filippini. Perché, nelle menti malate degli aggressori, chiunque possa anche lontanamente sembrare un cinese è percepito come responsabile della diffusione del Covid-19.

L'impennata degli attacchi coincide con la pandemia. E non solo negli Stati Uniti. Come ha scritto il britannico The Guardian, «i crimini d'odio anti-cinese sono aumentati di un quinto nel Regno Unito nelle prime fasi dell'epidemia, mentre quasi un cinese australiano su cinque dice di essere stato fisicamente minacciato o attaccato da quando è iniziata».

Il problema ha però dimensioni maggiori negli Stati Uniti, dove la comunità asiatica conta 21 milioni di persone. Già all'inizio della pandemia, l'Fbi aveva segnalato che si aspettava un aumento dei crimini d'odio contro gli asio-americani. E il 12 agosto 2020 le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto che denunciava «un livello allarmante» di violenza a sfondo razziale e altri episodi di odio contro gli asiatici. L'allarme è scattato anche a livello locale: la task force per i crimini d'odio di New York City ha indagato su 27 incidenti nel 2020, cresciuti di nove volte rispetto all'anno precedente. E a Oakland, California, la polizia ha aggiunto pattuglie e aperto un posto di comando a Chinatown.

Già, la California... Secondo le ultime stime, oltre sei milioni di asiatici americani (pari al 15% dei residenti) vivono nel Golden State, di gran lunga più che in ogni altro Stato americano. E sono nel mirino: l'ultimo episodio risale al 18 marzo, quando un uomo di 39 anni ha dato un pugno in faccia una vecchietta cinese, Xiao Zhen Xie, ferma a un incrocio su Market street a San Francisco. Ma, nonostante i suoi 76 anni, la donna non s'è persa d'animo: ha trovato un bastone e ha mandato il suo aggressore all'ospedale.

«Qui nella zona di San Francisco siamo molto "Asia-centrici": il cibo, la cultura, l'enorme Chinatown... Eppure c'è una lunga storia di discriminazione contro gli asiatici, che ha lasciato brutte tracce» spiega a PanoramaMary Cardaras, presidente del Dipartimento di Comunicazione e docente alla California State University, East Bay, vicino a San Francisco. «Siamo tutti indignati per gli attacchi ai nostri amici e vicini asiatici. I nostri studenti sono costernati e nervosi. Molti hanno paura».


Un agente di polizia nella Chinatown di San Francisco il 17 marzo 2021, nel riquadro la campagna contro l'odio razziale (Getty Images).

odio


Paura: sembra impossibile, ma nell'America del 2021 gli americani di origine asiatica temono di girare per strada. La professoressa Cardaras ha procurato a Panorama un contatto con una sua collega appartenente a quel gruppo etnico. Regista e docente alla California State University, Anita Chang è originaria di Taiwan. Alla domanda se ha paura, risponde in modo categorico: «Assolutamente sì, perché il rischio di essere uccisi è reale. Com'è noto, acquistare una pistola e delle munizioni è abbastanza facile negli Stati Uniti. E dal Covid-19, c'è stato un aumento degli acquisti di armi, anche da parte degli asio-americani». Un fatto inedito: come si legge sul sito del The Sacramento Bee, «gli asio-americani avevano tassi storicamente bassi di possesso di armi», ma adesso in molti stanno correndo «a comprare un'arma per la prima volta in vita loro».

La professoressa Chang non si è armata, ma ha preso delle precauzioni. «Ho iniziato a farlo dall'inizio del lockdown, nel marzo scorso» spiega. «Quando vivevo a Taiwan, la gente del posto mi ha detto che, per proteggersi dai serpenti velenosi, bisogna avere un raggio di osservazione di cinque piedi ovunque si vada. Una volta che il serpente è entro i cinque piedi di distanza, devi essere pronto a proteggerti da un attacco. Oggi ho sviluppato la consapevolezza che, quando sono in strada, devo avere un raggio di osservazione di 15 piedi per potenziali atti razzisti». Ma non è tutto. «Quando esco da sola» aggiunge Chang, «mando un messaggio al mio compagno o a mio fratello per avvisarli. Mio fratello pensa che dovrei portare con me lo spray al peperoncino».

Il compagno della professoressa è un americano di origine giapponese, il fotografo documentarista Tosh Tanaka. «Per tutta la sua vita negli Stati Uniti, il mio compagno è stato aggredito con epiteti razziali, anche quand'era in servizio nell'esercito. Io stessa ho sperimentato un aumento degli attacchi verbali durante gli anni Ottanta, in corrispondenza con l'ascesa dell'industria automobilistica giapponese. E durante la pandemia, ho incrociato su un marciapiede un giovane bianco in bicicletta. Non indossava la mascherina. Mi ha guardato e mi ha tossito addosso».

Tossire addosso agli asiatici è un'abitudine molto diffusa di questi tempi negli Stati Uniti: si tratta di un segnale per «incolparli» della diffusione della pandemia. «Non ho idea se quel ragazzo lo abbia fatto di proposito» precisa la professoressa Chang, «ma a me e ai miei amici asio-americani sono capitati incidenti di questo tipo. Possiamo presumere che fossero aggressivi e che avessero una motivazione razziale, anche se non siamo in grado di confermarlo al 100%. Immagino che si siano verificati molti casi così e che non siano stati segnalati». Ma è vero che il fenomeno è peggiorato con la pandemia di Covid? «Credo di sì. Quando il fenomeno è esploso, il mio collega della San Francisco State University ha lanciato l'iniziativa Stop AAPI Hate (https://stopaapihate.org/about/)».

Panorama ha chiesto alla professoressa Chang cosa pensano la sua famiglia, i suoi studenti e i suoi amici asio-americani di quello che sta succedendo. «L'ho chiesto direttamente a loro» ha risposto. «Mia madre ritiene che sia ingiusto mettere nel mirino gli asiatici. Lei e mio padre sono anziani. Però vivono in una piccola cittadina da molti anni, sono conosciuti e si sentono al sicuro. Mio fratello, invece, vive in città. È vigile da sempre, perché è stato vittima di bullismo da giovane a scuola perché asiatico. Però è più preoccupato delle sparatorie casuali con armi da fuoco che per gli attacchi razziali contro gli asiatici. Quanto invece ai miei studenti e amici asio-americani, sono tutti preoccupati, in ansia e alcuni non riescono a dormire di notte».

Pensa che le autorità stiano rispondendo in modo corretto? «Penso che la risposta sarebbe potuta essere più veloce (per stroncarla sul nascere, per così dire), ma, com'è noto, l'anno scorso l'ex presidente Donald Trump ha alimentato l'odio contro il governo cinese, e questo ha trasformato in un capro espiatorio chi, negli Stati Uniti, ha un aspetto asiatico. D'altro canto, gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione in tema di trasformazione degli asiatici in capro espiatorio. Al contrario, Joe Biden ha fatto una dichiarazione nazionale contro l'odio anti-asiatico, e si spera che avrà effetto nei singoli Stati, nei governi locali e nelle comunità. Sono state appena lanciate anche delle petizioni come questa: https://actionnetwork.org/forms/call-for-a-communi...».

La professoressa Cardaras conferma l'analisi della collega Chang: «La discriminazione è sempre stata presente negli Stati Uniti e c'è sempre stato quello che ora chiamiamo "discorso dell'odio". Eppure io attribuisco gli ultimi attacchi a Donald Trump e al partito repubblicano di estrema destra di cui è alla guida. Si tratta di un gruppo pieno di odio, timoroso e rabbioso perché gli Stati Uniti stanno cambiando e perché molto potere adesso è passato in mano alle persone di colore». La professoressa, che è stata anche direttrice della Cnn, conclude: «Combatteremo questa violenza, sosterremo e proteggeremo come possiamo la comunità asiatica e i nostri studenti di origine asiatica».

Anche i BTS finiscono nel mirino dell'Asian Hate

«I BTS? Un virus schifoso per cui speriamo presto si trovi presto un vaccino». A comparare la k-pop band di Seoul al Covid-19 è stato uno speaker radiofonico tedesco, tale Matthias Matuschik, che dal suo programma in onda su Bayern 3 ha ben pensato che paragonare sette ventenni al virus che sta tenendo in scacco il mondo da ormai un anno.

L'Asian Hate è qualcosa che è troppo spesso sembra essere un effetto collaterale dell'essere famosi. Essere idol significa dover essere pronti ad affrontare ogni tipo di accusa, anche quella che ti paragona a una pandemia. A non tardare ovviamente sono state le finte scuse del conduttore che ha tenuto a puntualizzare, sempre durante il suo programma: «non potete accusarmi di xenofobia. Guido una macchina coreana ed è l'auto più cool di sempre».

È proprio questa generalizzazione che ha portato a un nuovo scandalo, in occasione dei 63° Grammy awards. I BTS, candidati nella categoria Miglior performance di un duo o un gruppo non solo sono stati posizionati nel pre-show scatenando l'ira dei fandom di tutto il mondo, ma la loro esibizione di Dynamite, la canzone k-pop che sta battendo ogni record mondiale, è stata relegata al termine dello show. Ma attenzione. Non come ultima performance in chiusura, un onore riservato ai grandi artisti. Al gruppo, che nel 2020 si è rivelato essere record-breaker nonostante la complessa situazione mondiale e l'assenza di esibizioni live e concerti, è stato concesso di esibirsi solo come penultimi artisti e con una versione ridotta della loro canzone. Uno smacco che non è stato visto di buon occhio dagli Army di tutto il mondo che sui social hanno sottolineato la mancanza di rispetto dell'organizzazione nei confronti di chi, dalla Corea, e nonostante il fuso orario avverso, ha presenziato per tutto lo show. Vi sembra poco? Allora lasciate che si aggiunga che, la sconfitta della band contro la canzone di Lady Gaga e Ariana Grande, Rain on Me, è stata etichettata dai media come un fallimento. E questo, nonostante il gruppo la notte stessa dei Grammy, nono solo sia riuscito a riportare la loro prima traccia in inglese al numero uno nelle classifiche di vendita, ma con i loro hashtag personalizzati abbiano anche generato un volume di tweet due volte superiore a quelli inviati gli hashtag ufficiali della premiazione. Quello della salute mentale degli idol è un tema delicatissimo che viene spesso sottovalutato anche dalle etichette discografiche che lavorano con cantanti e attori. Spesso ci si dimentica che, prima di essere una macchina che produce soldi, i ragazzi coinvolti sono esseri umani che non possono in alcun modo rimanere impassibili ai continui attacchi a cui sono sottoposti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è lo sticker prodotto da Topp, una società che da anni produce etichette satiriche post Grammys chiamate Garbage Pail Kids. In questo caso, l'ultima collezione, comprendeva la rappresentazione dei BTS intitolata «BTS Bruisers» in cui i sette membri del gruppo sono stati disegnati come pezzi del gioco "Schiaccia la talpa", insanguinati e pieni di lividi dopo essere stati colpiti da un premio Grammy. La card, che doveva appartemente significare lo smacco subito dalla band durante la premiazione, si è rivelata la più violenta del gruppo e ha attirato le ire social da tutto il mondo. A sollevare per primo la polemica è stato il podcaster e YouTuber Jose Ochoa che ha esposto Topps con un tweet virale, chiedendo di sapere perché BTS erano gli unici artisti nella collezione Shammys a ricevere una rappresentazione violenta.


Marianna Baroli

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Elisabetta Burba

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Marianna Baroli

Giornalista, autore

(Milano, 1986) La prima volta che ha detto «farò la giornalista» aveva solo 7 anni. Cresciuta tra i libri di Giurisprudenza, ha collaborato con il quotidiano Libero. Iperconnessa e ipersocial, è estremamente appassionata delle sfaccettature della cultura asiatica, di Giappone, dell'universo K-pop e di Hallyu wave. Dal 2020 è Honorary Reporter per il Ministero della Cultura Coreana. Si rilassa programmando viaggi, scoprendo hotel e ristoranti in giro per il mondo. Appena può salta da un parco Disney all'altro. Ha scritto un libro «La Corea dalla A alla Z», edito da Edizioni Nuova Cultura, e in collaborazione con il KOCIS (Ministero della Cultura Coreana) e l'Istituto Culturale Coreano in Italia.

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