Brasile
(Getty Images)
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Il Brasile rischia di restare vittima del caos, per sempre

L'assalto ai palazzi del potere di Brasilia è la spia di una divisione tra fazioni politiche che è insanabile

Tappeti strappati, pavimenti divelti, divani lacerati, finestre rotte, opere d’arte mancanti e marmi trafugati. No, non è il resoconto dell’assalto agli edifici del Congresso, del Tribunale federale e del Palácio do Planalto, sede della Presidenza della Repubblica del Brasile. È invece come Janja Rôsangela da Silva, moglie del presidente Lula, ha trovato gli uffici che ospiteranno il nuovo presidente del Brasile. Jair Bolsonaro – o chi per lui – ha volontariamente vandalizzato l’appartamento presidenziale per spregio e per mandare un segnale al suo successore.

Basterebbe questo spaccato di realtà quotidiana ai vertici dello Stato brasiliano per capire come funzionano le cose in Brasile, e per inquadrare meglio l’attacco (sia pur non violento) alle istituzioni brasiliane dell’8 gennaio 2023.

Insufflati di populismo e teorie complottiste da anni, i sostenitori del presidente uscente hanno replicato quanto già visto a Capitol Hill il 6 gennaio di due anni fa, quando il «popolo di Trump» diede l’assalto al Congresso puntando a sequestrare la speaker della Camera Nancy Pelosi per restaurare il «loro» presidente legittimo, vittima di un presunto golpe dei poteri forti.

Così ieri a Brasilia, una settimana dopo l’insediamento del presidente di sinistra Luiz Inacio Lula da Silva (non presente nella capitale in quel momento), i bolsonaristi che rifiutano ancora di accettare l’elezione di Lula, hanno fatto irruzione a migliaia nel «triangolo dei poteri» brasiliani per manifestare la loro contrarietà al ritorno della sinistra al potere.

Stamani le autorità hanno iniziato a valutare i danni – definiti «ingenti» - al Palazzo presidenziale, al Congresso e alla Corte Suprema di Brasilia dopo aver arrestato centinaia di persone, secondo il ministro della Giustizia e della Sicurezza Flavio Dino. Ma non è tutto: i manifestanti nella notte, dopo aver lasciato la capitale, hanno bloccato autostrade e strade federali in almeno quattro Stati, tra cui il Mato Grosso, il più colpito dalle proteste degli ultrà dell’ex presidente.

A Brasilia, nel frattempo, si sono verificati momenti di grande tensione quando l’esercito ha impedito alla polizia di fare a sua volta irruzione in un’area dove erano accampati molti seguaci dell’ex presidente che avevano partecipato all’assalto, per arrestarli. I militari avrebbero sbarrato la strada agli agenti con i carri armati perché la zona si trova davanti al quartier generale dell’esercito, il Settore militare urbano (Smu), un’area di responsabilità esclusiva militare. Tutto legale, ma non proprio un segnale rassicurante.

Dunque, per ora niente golpe né contro-golpe. Solo tanta confusione sotto il cielo brasiliano. O, come ha tuonato un Lula particolarmente adirato nelle dichiarazioni dopo i fatti, «un attacco vandalo e fascista contro le istituzioni democratiche» da parte di «terroristi» che saranno «puniti in modo esemplare».

È questo l’ultimo atto di una presidenza folle, cominciata con l’accoltellamento del presidente Bolsonaro quando ancora non era stato nemmeno eletto, e conclusasi con atti vandalici al suo commiato. Trentottesimo presidente del Brasile dal 2019 al 2023, Bolsonaro non è stato certo un presidente incolore: controverso e sopra le righe, era entrato in politica coi Cristiano-Democratici caratterizzandosi per le sue posizioni fortemente conservatici. Eletto per la prima volta in Parlamento nel 1991, divenne celebre per i suoi interventi in difesa del regime militare, per le proposte di reintroduzione della pena di morte (era stata abolita nel 1988), e per dichiarazioni choc come la sterilizzazione degli indigenti per risolvere il problema della povertà e quelle contro gli omosessuali («se vedo due uomini che si baciano per strada, li picchio»).

Negazionista sul cambiamento climatico e accusato di crimini contro l’umanità per non aver voluto prendere adeguate misure sanitarie durante la pandemia, è però diventato un simbolo per i populisti americani non meno di Donald Trump, incanalando il malcontento di quanti hanno visto l’economia peggiorare durante la presidenza di Dilma Rousseff, proseguita poi con Michel Temer fino al 2019. Una larga parte del Brasile - da sempre allergica alla sinistra – ha visto nell’ex militante e attivista nella lotta armata un’usurpatrice del potere, che puntava a smantellare ogni tradizione conservatrice del Paese. Specialmente la borghesia paulista e carioca delle grandi metropoli, che ha sempre avuto in odio tanto il sindacalismo di Lula quanto il radicalismo alla Rousseff. Quando poi la presidente è stata destituita con l’accusa di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale, i populisti hanno creduto di aver trovato conferma nelle loro convinzioni. Pazienza se la notizia si è poi rivelata infondata: è stata più che sufficiente ad aumentare la divaricazione tra sinistra e destra in Brasile e nutrire la vendetta, materializzatasi con l’arrivo dell’ultra conservatore Bolsonaro.

Ed eccoci a oggi, quando per poco non si concretizzava la profezia dello stesso Jair Bolsonaro, che già nel 1999 dichiarò: «Con il voto non cambierà niente in questo Paese. Purtroppo, le cose cambieranno solo quando un giorno partiremo per una guerra civile qui dentro e faremo il lavoro che il regime militare non ha fatto, cioè uccidendo 30 mila persone, cominciando da Fernando Henrique Cardoso (al tempo presidente del Brasile, ndr). Se morirà qualche innocente non fa niente, in ogni guerra muoiono innocenti».

Ecco il volto dell’alt-right panamericana, un fil rouge che da Washington a Brasilia offre il peggio della politica conservatrice di destra. Con una differenza sostanziale: mentre Trump si sente pienamente nella ragione, e ha quasi guidato l’assalto alle istituzioni in una sorta di furore sacro, Bolsonaro era già fuggito in Florida da alcuni giorni, non lontano dal resort di Mar-a-Lago del suo amico e sostenitore Donald Trump. Lo avrebbe visitato ancor prima dell’assalto di Brasilia – da cui si è blandamente dissociato – e qui avrebbe incontrato anche Steve Bannon, l’incendiario «richelieu» di Trump che lo aveva convinto della necessità di una rivoluzione americana.

La rivoluzione non c’è stata, né in America né in Brasile. Entrambi i tentativi si sono rivelati una farsa senza alcuna struttura organizzata, per fortuna. Ma tutto lascia pensare che niente sarà più come prima. E che i cattivi esempi sono come macigni lungo la strada dell’esercizio democratico del potere. Ecco il grande limite dei presidenzialismi americani quando appaiono senza contropoteri: possono nuocere gravemente alle istituzioni.

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Luciano Tirinnanzi