Il codice delle 'donne d'onore'
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Il codice delle 'donne d'onore'

Non sanno, non vedono e non parlano. Ma le 'donne d'onore' gestiscono e pianificano gli affari e i 'colpi' delle 'ndrine. E soprattutto non tradiscono mai la famiglia

“Non sapevo come Antonino fosse stato ferito. Io non l’ho chiesto. E a me nessuno dice mai niente”. Maria Antonietta Latone, madre dell’ergastolano calabrese Domenico Cutrì, evaso lunedi scorso in un agguato spettacolare davanti al Tribunale di Gallare, sembra cadere dalle nuvole.

Davanti ai carabinieri la donna nega di sapere cosa è appena accaduto, nega di essere a conoscenza del piano organizzato dai figli per liberare il fratello Domenico. “Non so, non ho visto, non sapevo” ha ribadito più volte durante l’interrogatorio nella caserma di Magenta, a Milano.  

Ma la famiglia Cutrì è molto unita, i legami tra i familiari sono davvero molto forti, anzi, fortissimi. Lo hanno dimostrato i fatti, lo hanno confermato gli inquirenti.

E’ stata proprio Maria Antonietta, pochi minuti dopo l’agguato a portare il figlio Antonino gravemente ferito, all’ospedale di Magenta dopo morirà poco dopo. Eppure le parole della donna non convincono gli inquirenti. Maria Antonietta Lantone, infatti, e' imputata a Torino per falsa testimonianza proprio in relazione al processo che ha visto la condanna all'ergastolo del figlio Domenico. Il gup di Torino, lo scorso 14 gennaio, ha  disposto il rinvio a giudizio della donna perché aveva cercato di dare un alibi al figlio Domenico, imputato oltre che per omicidio anche per induzione alla falsa testimonianza.

Insomma, un interrogatorio quella della madre di Cutrì, fatto di “non so, non ho visto, non parlo” che ricorda l’atteggiamento delle “donne d’onore” calabresi.

Le donne d’onore non sono uguali alle altre donne, neanche a quelle della loro terra: la Calabria. Loro, spesso, sono le mogli dei boss latitanti, dei boss in carcere. Loro, “sono l’alter ego dei mariti, ovvero dei capi e ne assumono di fatto il loro posto” spiega il pm Giuseppe Lombardo. Che precisa: “Oggi non si possono più fare indagini trascurando l’altra metà del cielo”.

Infatti sono le donne d’onore che in un tacito accordo di sangue gestiscono gli affari della ‘ndrina; sono loro che inveiscono contro lo Stato e contro le forze di polizia quando i mariti vengono catturati; sono sempre le donne d’onore, che comunicano in codice i messaggi dei loro boss detenuti in carcere; sono quelle donne che riciclano il denaro sporco, trasportano droga, ordinano uccisioni o stragi, il tutto in nome della cosca. Ma nonostante tutto questo "potere" non si deve pensare che i boss dell’’ndrangheta abbiano attuato una politica di “pari opportunità”, quella parità tanto ambita dal genere femminile. Per loro quella donna, ricopre esclusivamente un ruolo ausiliario.

L’universo mafioso, per i boss calabresi, rimane esclusivamente  di stampo maschile.

La punizione di Lea Garofalo
Eppure delle donne di ‘ndrangheta, a volte ideatrici e a volte solo mere esecutrici, ancora si sa pochissimo. Lea Garofalo giovane moglie di un boss che ha raccontato alla Magistratura gli affari del marito e per questo punita dalla stessa ‘ndrina con la morte, ha svelato con la sua storia solo una piccola ma significativa parte del complesso cosmo organizzativo della cosca mafiosa calabrese. In pochi hanno la reale percezione di quale sia il ruolo della donna all’interno della più potente e sanguinaria organizzazione mafiosa al Mondo.

Le voci della scuola
Panorama.it prova a descrivere il ruolo della donna d’onore calabrese attraverso la testimonianza di altre "giovani" donne, studentesse calabresi, che vivono nella stessa terra , respirano la stessa aria delle mogli dei boss ma che con loro non vogliono niente a che fare.
Questi sono alcune frasi di temi che hanno svolto a scuola sull’argomento.

Adele: “Nel corso degli anni le cose sono cambiate e la figura della “donna d’onore” è variata assieme alla figura della donna in sé. Notevole, infatti, è l’evoluzione della posizione che questa ha assunto: prima era considerata soggetto incapace di agire senza il consenso dell’uomo, ma successivamente è stata rivalutata come soggetto con pari dignità sociali. Dunque, se precedentemente la donna mafiosa garantiva un potere interno alla casa, attualmente ha un potere che si estende anche all’esterno, dal momento che i vari mariti, fratelli e cognati sono spesso in galera. Pertanto sono pericolose più di quanto potremmo credere: la loro è una “potenza” velata, in quanto hanno ricoperto (anche se di meno in passato) e ricoprono tutt’oggi un ruolo di ambasciatrici che si muovono tra varie cosche, facendosi dare “consigli” dai mariti in carcere.[….] Ma cosa spinge queste donne a collaborare con gli uomini? Probabilmente la provenienza da una famiglia mafiosa aiuta, ma per molte di loro sposare un membro della ‘ndrangheta o di Cosa Nostra può essere considerato un punto d’arrivo, una soddisfazione, la garanzia di essere moglie di un “uomo d’onore”, “importante”.

Arianna: “Vecchia, sporca, sordida è la mia soffitta mentre la guardo. Siamo tutti così davanti alle nostre colpe…ma io, che colpa ho io? Io che non sono più nata il giorno del mio compleanno, vedova di un marito vivo, figlia di un cognome che non porto. Sono come una di queste crepe che mi corrodono il muro. Sono una crepa tale e quale alla mia famiglia. Ci ramifichiamo, alimentiamo la muffa di questa società. Ma io, che colpa ho io? Io sono morta per loro…e per Teresa. Ho aperto un varco sulle piaghe del tempo. In piedi sui miei quarant’anni, ho avvolto i miei ricordi d’infanzia nel mio vestito rosso. Rosso come l’onore che mi ha portato fin qui. “Maria, Maria” mi sento chiamare da sotto le scale. Io non sono più Maria. Per un attimo mi sento di nuovo Teresa. “Teresina, tu pensi troppo”, mi dice sempre mio marito. Mio marito è in carcere e io non sono altro che la sua cerniera. Chiudo due pezzi di tela stracciata: la sua nuova realtà e la  Famiglia, come la chiama lui. Mantengo saldi i loro contatti. Io ho imparato bene cosa bisogna fare con gli uomini, bisogna starli a sentire. E io l’ascolto mio marito, io ubbidisco a mio marito. Io l’ho sempre fatto. Ma io non sono più la bambina di papà nel vestito rosso, la ‘ndrangheta non è più il suo gioco. La ‘ndrangheta è reale. La ‘ndrangheta è la mia vita. Nemmeno mi curo più che la mamma non mi porti a vedere dove lavora papà. Non guardo più oltre i buchi della serratura. Io ho capito che mio padre non gestisce un’azienda importante. Ho capito che tipo di azienda gestisce mio padre. Mia madre ha sposato uno ‘ndranghetista. Io ho sposato uno ‘ndranghetista. Ma mia figlia non sposerà uno ‘ndranghetista. Nel grembo ho portato una bambina, e tutto l’odio e il rancore che una donna può serbare. La ‘ndrangheta mi ha portato via la mia individualità di donna. Mi ha portato via un fratello. “L’onore”, ha detto mio padre. “L’onore” ha ripetuto mio madre. E poi forse almeno lei tra i due ha pianto. Ma a me non dispiace. Perché mia madre ha cresciuto i suoi figli nella convinzione che la Famiglia sia tutto, e mia madre è rimasta senza famiglia prima ancora di me. Un figlio non ce l’ha più e mio padre è stato arrestato. La Madonna le è rimasta, e alla Madonna va a pregare. Perché come lei deve piangere un figlio, ma questa è la storia di un altro Vangelo. Mia madre oggi ha perso anche una figlia, soltanto per egoismo, per vendetta. Una figlia che non accetta più la morte del fratello, questo sono.”

Maria: “… quando arrivavano le armi era mia zia che faceva da staffetta, mia zia che consegnava, oppure mia cugina andava a prendere, non so, la pistola, il fucile, quello che serviva e lo portava a suo padre.[…] E quando uscivano di casa uscivano sempre scortati dalle donne oppure con le parrucche. Gli uomini erano sempre latitanti o erano agli arresti domiciliari forzati perché si arrestavano da soli, cioè stavano chiusi in casa e chi lavorava erano tutte donne.[…] Cioè tutte le cose che si svolgevano erano sempre tramite noi donne. Da un’altra testimonianza di Rita Di Giovine emerge un quadro di donne forti, attive, violente. Essa dice che oggi sono i “generali in gonnella” a comandare, a “portare i pantaloni”, a prendere le decisioni più importanti, a essere capaci addirittura di ammazzare  una persona con le proprie mani e a essere ben consapevoli del loro ruolo! È importante precisare che non si diventa ‘ndranghetiste solo per “merito”, ma anche e soprattutto per nascita. Nell’aprile del 2003, nel corso di un’intercettazione, infatti la figlia di un boss della ‘ndrangheta ha ammesso che la propria affiliazione era avvenuta per “discendenza”. Rosaria Testa e Concetta Muzzopapa, entrambe di Rosarno, accusate di associazione a delinquere rivelano che le donne quando vengono ammesse nella Picciotteria devono anch’esse prestare giuramento, facendosi uscire il sangue del dito mignolo della mano destra. Vi è poi chi (come è accaduto a Maria Morello, una figura rilevante emersa durante l’operazione Lombarda “Fiori della notte di San Vito”), viene associata al clan con il titolo di “sorella d’ omertà” , una carica che, come spiega il pentito Calogero Marcenò, viene affidata ad una donna, che ha il compito di dare assistenza ai latitanti dell’organizzazione di un’intera regione. Lo stesso pentito racconta che la donna nell’organizzazione era anche “santista” , il ruolo più elevato che essa possa ricoprire all’interno della ‘ndrangheta”.

Dario: “In questo nuovo ruolo le donne di mafia appaiono dure, aggressivamente tese alla difesa di un mondo di sopraffazione e di morte, pronte a sacrificare i propri figli, a maledire ed insultare chi tenta di liberarsi dall’abbraccio mortale del vincolo dell’affiliazione: pronte, soprattutto, a prendere, se necessario, il posto dei loro uomini. Un tema quello della presenza femminile nel contesto mafioso che si è dimostrato quanto mai d’attualità, soprattutto negli ultimi trenta anni, nonostante tradizionalmente sia stato sottovalutato, vuoi per un pregiudizio culturale che viveva di stereotipi, vuoi a causa di una giurisprudenza “paternalistica” che, in linea con la tesi del “vincolo socio-criminologico”, non considerava la possibilità che le compagne e le parenti dei mafiosi potessero rivelarsi consapevoli e con una loro autonomia decisionale; come a voler confermare l’adagio che “una donna non si picchia neppure con un fiore”. ”Per anni si è banalizzato il ruolo criminale svolto dalle donne di mafia, ma il loro contributo è molto più complesso con differenze di genere che si declinano nelle distinzioni tra cosa nostra, camorra, sacra corona unita”.

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Nadia Francalacci