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Chi non vuole sapere la verità sulla strage di Ustica?

Ancora polemiche tra le due associazioni dei familiari delle vittime: una chiede nuovi accertamenti tecnici sul relitto, a Bologna; l’altra si oppone (e grida al depistaggio). Eppure…

Non sono bastati 42 anni. Dal disastro del 27 giugno 1980 sono trascorsi 15.330 giorni, ma Ustica continua a essere una ferita aperta e una fonte di perenni polemiche. L’ultima nasce da una denuncia. Giuliana Cavazza e Flavia Bartolucci, presidente onoraria e presidente dell'Associazione per la verità su Ustica, hanno appena presentato un esposto per chiedere all’autorità giudiziaria il sequestro dei resti del Dc-9 Itavia attualmente esposti al Museo della memoria di Bologna. Eredi di due delle 81 vittime della strage, e fermamente convinte che il jet non sia stato abbattuto da un missile, bensì da una bomba contenuta nella toilette posteriore del jet, Cavazza e Bertolucci chiedono alla magistratura di «disporre tutti gli accertamenti tecnici che oggi il progresso scientifico consente».

Sull’altro fronte Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, è convinta dell’opposta tesi del missile e della battaglia aerea: per questo, contrasta duramente l’esposto dell’Avdu e sostiene sia pieno di «provocazioni, depistaggi e menzogne». Bonfietti, che per tre legislature è stata anche parlamentare del Partito democratico della sinistra, critica la richiesta di sequestro, in quanto il relitto del Dc9 «è stato consegnato al Comune di Bologna in affidamento giudiziario», dice «e quindi è a disposizione sempre della magistratura». E precisa che «la Procura di Roma sta indagando ed è la referente di ogni possibile istanza». Bonfietti, soprattutto, contesta l’esistenza di documenti secretati: «Voglio informare», dice, «che proprio in questi giorni sono stati depositati in libera consultazione all'Archivio centrale dello Stato tutti quei documenti sui quali in questi anni si erano sviluppate pretestuose polemiche».

I cablogrammi di Giovannone e i missili di Ortona

I documenti cui fa riferimento Bonfietti, a rigor di logica, dovrebbero essere i 13 cablogrammi inviati da Beirut a Roma dal colonnello Stefano Giovannone, dal 1973 al 1982 capo in Libano del centro Sismi, il servizio segreto militare italiano.

Tra il novembre 1979 e il giugno 1980, prima della strage di Ustica, Giovannone aveva spedito quella lunga serie di note riservate ai vertici del Sismi, a Roma, per avvertire il nostro governo del crescente e gravissimo pericolo di attentati contro l’Italia per mano del terrorismo palestinese. Nell’ultimo di quei messaggi, il colonnello del Sismi citava anche il possibile obiettivo della minaccia: un aereo dell’aviazione civile italiana.

La ritorsione violenta dei terroristi, secondo Giovannone, era giustificata dall’arresto, avvenuto a Ortona nel novembre 1979, e poi dalla condanna di primo grado di tre estremisti di Autonomia operaia e di Abu Anzeh Saleh, leader in Italia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), un gruppo terroristico. I quattro trasportavano in un furgoncino due micidiali missili terra-aria Sam-7 di fabbricazione sovietica, sbarcati il 7 novembre 1979 nel porto di Ortona dalla nave libanese Sidon.

Il 25 gennaio 1980 Abu Anzeh Saleh, che per copertura risultava essere studente universitario a Bologna, era stato poi condannato con i suoi compagni dal tribunale di Chieti per porto e detenzione d’arma da guerra a sette anni di reclusione. A quel punto era cominciato il processo d’appello. Evidentemente, il Fplp era molto nervoso che anche l’esito di quel secondo grado potesse essere negativo.

L’ombra del «Lodo Moro»

In uno dei suoi ultimi messaggi, nella torrida estate del 1980, Giovannone faceva allarmato riferimento all’accordo segreto in base al quale, a partire dal 1973, l’Italia aveva garantito al terrorismo palestinese libero transito nel suo territorio in cambio della garanzia che non sarebbero più stati eseguiti attentati contro il nostro Paese. Si tratta del cosiddetto «Lodo Moro», cioè l’intesa – fin qui sempre smentita a livello ufficiale - che prende il nome del ministro degli Esteri dell’epoca, Aldo Moro, che l’avrebbe siglata con le organizzazioni per la liberazione della Palestina. In realtà, molte fonti confermano l’esistenza del Lodo Moro.

In effetti durante il processo di Chieti era accaduto addirittura che il Fplp avesse richiesto esplicitamente la restituzione dei missili: il 12 gennaio 1980 Bassam Abu Sharif, uno dei capi del Fplp, aveva dichiarato a Paese Sera che i missili erano del Fplp e che «non è la prima volta che imbarchiamo armi attraverso l'Italia», da lui descritta come «comoda via di passaggio». Sharif aveva aggiunto che «i missili non erano destinati a essere utilizzati in Italia» e aveva chiesto la loro restituzione al Fplp.

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La giustizia penale: non fu un missile

Le carte di Giovannone, è evidente, sono particolarmente significative per chi, come Giuliana Cavazza, crede nella tesi della bomba. Dello stesso avviso sono anche politici, come l’ex ministro Carlo Giovanardi, e militari come Leonardo Tricarico, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica tra il 2004 e il 2006. Tricarico è indignato: «È paradossale», dichiara a panorama.it «che la verità sulla caduta del DC9 Itavia venga sistematicamente occultata da una cortina fumogena innalzata, pure in questi giorni, da chi ancora contrabbanda la tesi del missile e della battaglia aerea».

A confermare le loro opinioni è la sentenza della prima sezione penale della Cassazione che il 10 gennaio 2007 ha assolto con formula piena dall’accusa di depistaggio due generali dell'Aeronautica militare, Franco Ferri e Lamberto Bartolucci.

In quel processo, durato 277 udienze e basato su più di 4mila testimoni e su 1 milione e 750 mila pagine d’istruttoria, 15 anni fa la giustizia italiana ha escluso che la strage di Ustica sia da ricondurre a un missile o a una battaglia aerea. Quell’assoluzione ha confermato per sempre le conclusioni cui il 15 dicembre 2005 era giunta la Corte d’assise d’appello di Roma. Alle pagine 114 e 115 di quella sentenza si legge: «Nessun velivolo ha attraversato la rotta dell’aereo Itavia, non essendo stata rilevata traccia di essi dai radar militari e civili, le cui registrazioni sono state riportate su nastri da tutti i tecnici unanimemente ritenuti perfettamente integri». La sentenza prosegue: «A ciò vanno aggiunti i vari accertamenti da cui risulta che tutti gli aerei militari italiani erano a terra, che i missili di dotazione italiana erano tutti nei loro depositi, che gli aerei militari alleati non si trovano nella zona del disastro, e che nell’ora e nel luogo del disastro non vi erano velivoli di alcun genere».

Poco più in là, i giudici aggiungono parole chiarissime: «Le ipotesi dell’abbattimento dell’aereo a opera di un missile (…) non hanno trovato conferma, dato che la carcassa dell’aereo non reca segni dell’impatto del missile». Smentiscono anche la collisione in volo, in quanto «con ragionevole certezza tutti gli esperti, dopo un attento controllo sul relitto ricostruito, hanno escluso che su di esso fossero presenti tracce caratteristiche d’impatto con altro velivolo».

Le conclusioni sono nette: «Tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Gheddafi, e così via, fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva». Insomma: no missile, no battaglia aerea, no collisione: per la giustizia penale, queste sono soltanto invenzioni della stampa.

La giustizia civile: fu battaglia aerea

Ma la giustizia italiana, si sa, spesso ha due facce. E infatti il 28 gennaio 2013 la Cassazione civile ha condannato lo Stato italiano a risarcire le famiglie delle vittime perché il Dc9 sarebbe stato abbattuto nel corso di una battaglia aerea.

Più precisamente, il procedimento civile ha deciso – sia pure senza troppe perizie - che la causa del disastro è legata «un evento collegato alla presenza di velivoli militari nelle immediate vicinanze del Dc9» più probabilmente come «conseguenza dell’esplosione di un missile (…) o di una quasi-collisione» con un caccia militare impegnato nella battaglia, ingaggiata forse per abbattere Muammar Gheddafi.

È la tesi cui crede Daria Bonfietti. La tesi dei film e delle inchieste giornalistiche. Ma a livello politico c’è chi continua a darle credito. Il 27 giugno Enrico Letta, segretario del Pd, ha scritto su Twitter che «un atto di guerra nei cieli italiani ha ucciso 81 innocenti», e che «dopo tanti depistaggi i familiari delle vittime attendono ancora verità e giustizia», e per questo serve «il massimo impegno a livello internazionale». Parole che Giovanardi – ricordando decine di rogatorie e le risposte fornite da Jacques Chirac e Bill Clinton - critica aspramente: «Spero che Letta si renda conto della gravità delle sue affermazioni, che rilanciano il sospetto che Paesi amici e alleati siano non soltanto assassini, ma anche bugiardi».

Il segreto di Stato persiste

Davanti all’irriducibilità delle polemiche, la richiesta di compiere nuovi rilievi sui resti del Dc9 «custodito» a Bologna non sembra quindi sbagliata, perché avrebbe lo scopo e forse il merito di valutare con tecniche moderne se i rottami deformati dell’aereo possano dare una risposta definitiva alla tesi della bomba o del missile. Chi è convinto dell’ipotesi di un attentato palestinese, come ritorsione per il mancato rispetto del Lodo Moro nel caso dei missili di Ortona, sostiene anche che sarebbe utile che i magistrati che a Roma continuano a indagare sulla strage potessero leggere le carte del Sismi di 42 anni fa.

Oggi, però, non si capisce bene quali documenti siano stati depositati all’Archivio centrale dello Stato, in base a quanto rivelato da Daria Bonfietti. «A me risulta, purtroppo, che in nessuna di quelle carte si faccia riferimento a Ustica», dice Giovanardi a Panorama.it, «e quindi dubito che si tratti dei cablogrammi di Giovannone, che fino al 27 giugno 1980 di certo non poteva sapere quale sarebbe potuto essere l’attentato in ritorsione, né soltanto immaginare che un aereo sarebbe sprofondato nel mare di Ustica». Sul punto anche il generale Tricarico è scettico: «Sì, ho visto le dichiarazioni di Daria Bonfietti», dice, «ma a me non risulta che i cablogrammi di Giovannone siano stati de-secretatati. Di certo, comunque, insisteremo con questo governo perché questo avvenga».

Vedremo che cosa deciderà Mario Draghi sul punto. Due anni fa, Giuliana Cavazza aveva già fatto un’espressa richiesta di togliere il segreto al governo, che allora era presieduto dal grillino Giuseppe Conte, ma quell’esecutivo le aveva risposto che le note di Giovannone «non sono attinenti» alla strage di Ustica. Palazzo Chigi aveva aggiunto che rendere pubbliche le note del colonnello avrebbe arrecato «un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica». Perché? Anche questo è un mistero senza risposte.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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