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Protesta studentesca a Napoli il 18 febbraio 2022 (Ansa).
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La scuola che verrà

Una riforma dettata dall’Ue, il digitale, il virtuale e i Big Data... Ma all’appello mancano cura, relazione e persona.

«La scuola deve essere la priorità». Non c’è personaggio politico e in generale pubblico che negli ultimi anni non abbia espresso questo concetto davanti a un microfono. Ciononostante, pur essendo unanimemente l’argomento che debba precedere tutti gli altri per importanza e per nobiltà, la scuola alla prova dei fatti non è mai prioritaria.

E così, quando c’è da pensare al presente e al futuro degli studenti, si attende sempre fino a quando non si è proprio obbligati a farlo, o fino all’emergenza da risolvere. Oppure si parla di scuola senza parlare di scuola, ma trattando di tutt’altro. Di innovazione digitale, di schermi scintillanti, di dati processati, ma non di scuola, o di quello che ancora chiamiamo così.

«La scuola è un asset fondamentale per il nostro Paese» ha dichiarato il ministro Patrizio Bianchi a più riprese, utilizzando un termine - asset - che dà una connotazione economica alla scuola, relegandola a una voce di bilancio per lo Stato. Questo sembra essere la scuola nella vita politica concreta, fuori da dichiarazioni e buoni propositi da congresso.

Anche la recente riforma che riguarda l’assunzione e la formazione dei nuovi insegnanti appare un provvedimento timido, utile solamente a soddisfare gli obblighi imposti dal Pnrr. L’istruzione è una delle «sei missioni» in cui investire i soldi di Next Generation EU, per cui la scuola deve centrare alcuni obiettivi se l’Italia intende mantenere i finanziamenti europei promessi. E uno di questi obiettivi coinvolge proprio il reclutamento - come suona male, oggi, questa parola declinata alla scuola - dei nuovi docenti.

Così il Miur in questi giorni ha varato, con l’approvazione del Parlamento, una riforma che prevede alcune novità in merito. Senza rivoluzioni, vale a dire senza lauree abilitanti, senza una riformulazione del mestiere del docente inteso come cultore della materia che insegna e della relazione che realizza in aula, senza un adeguamento salariale coraggioso.

È una riforma che segna grande continuità con quanto già esiste e affligge la scuola: ancora una raccolta di crediti universitari per poter diventare insegnante, ancora concorsi nozionistici, ancora formazione permanente usata come cortina fumogena per mascherare problemi non risolvibili con un corso online e relativo questionario finale. Ancora spiccioli, in attesa della boccata d’ossigeno che garantirà la contrazione delle nascite.

Eh sì, perché con la curva della natalità a segnare con costanza nuovi spaventosi ribassi, le aule si svuotano di anno in anno e si spera che alcuni problemi della quotidianità potranno risolversi da soli. Questo modo di pensare la scuola del domani non pare proprio coerente con le dichiarazioni che assegnano assoluta priorità al tema della scuola e dell’istruzione.

E in questo quadro servono a poco le sperimentazioni che entusiasmano i giornali, come la scuola che debutta nel metaverso, l’ultimo ritrovato digitale e virtuale, l’ultima fiera della vanità. È questo il caso di una scuola internazionale, la prima di una serie probabilmente: grandi investimenti per una grande pubblicità e la scommessa comunicativa a caccia di qualche clic.

Allo stesso modo, non sarà risolutiva la «datizzazione» che sta vivendo la scuola. Sono anni in cui la scuola parla sempre di più il linguaggio aziendale, dimenticandosi di essere altro rispetto a un’azienda, per obiettivi, popolazione, posta in palio, finalità. La scuola accoglie, aspetta, rilancia e investe a fondo perduto, un’impresa che deve guadagnare no, no e no.

In questi giorni uno studio del Politecnico di Milano in associazione con Fondazione Cariplo e altri partner ha mostrato come i Big Data potranno aiutare nella costruzione della scuola che verrà. Il rettore del Politecnico Ferruccio Resta ha dichiarato che ciò che si è fatto «con la formazione a distanza è un passo dal quale non si torna indietro, non più per risolvere un’emergenza, ma per progettare i prossimi vent’anni».

Sia chiaro che il futuro della scuola non può prescindere dalla presenza, così come non potrà essere in un luogo virtuale in cui non ci sia traccia di ragazzi nella stessa aula, con i loro docenti a condividere sguardi, fatiche, battute, tensioni. Non è passatismo ritenere che la scuola del futuro senza maestri, discepoli, ruoli e cultura trasmessa in un ambiente condiviso non sarà scuola, ma altro. Anche in questo caso, non si tratta di superiorità o snobismo, ma di dare il giusto nome alle cose.

Nel 2023 si voterà per il nuovo Parlamento e questo significa che tra poco inizierà una nuova campagna elettorale. La scuola muove centinaia di migliaia di voti, per cui tutti i partiti inizieranno a parlarne.

Sarebbe bello istituire, per misurarsi sul tema, dei veri e propri stati generali sulla scuola. Una sorta di «Agenda 2030 per la scuola», per usare una terminologia gradita alla politica progettuale. Un cantiere in cui si parli di scuola del presente e di coperture a ogni singola parola spesa, in cui si parli di scuola del futuro tra soggetti politici e società civile. Con la parola a docenti, genitori e alunni e con i politici a prendere appunti e cercando di progettare risposte politiche ai progetti e alle esigenze di chi la scuola la fa ogni giorno.

Perché la scuola è di tutti, a cominciare da chi ogni giorno, in ruoli diversi, la fa. Chi fa la scuola deve essere resiliente, si dice. Ma la scuola è e sarà fatta ancora da persone con testa e cuore, non da metalli inanimati.

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Marcello Bramati