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L'occupazione del liceo Manzoni di Milano il 10 maggio 2021 (Ansa).
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Ricordiamoci del ruolo nobile della scuola

Maggio è da sempre un mese caldo per la scuola, tra promozioni e medie in bilico. Quest'anno però è esplosa anche la protesta degli studenti, che si sentono valutati senza pause dopo un lunghissimo periodo di Dad che non può essere dimenticato.

Le proteste sono latenti dalla ripresa primaverile, ma sono sfociate in queste ore nell'occupazione del liceo classico Manzoni di Milano e certamente continueranno nei diversi istituti, sui social, nei corridoi.

Dopo due anni scolastici devastati dalla didattica a distanza, gli studenti denunciano un rientro a scuola che si sta rivelando un mese di valutazioni scritte e orali a ritmi travolgenti. Facile farsi prendere dall'emotività e attaccare a testa bassa i ragazzi, perché dopo tanti mesi di scuola da casa questa è la vita vera, oppure prendersela con i docenti, perché non si rendono conto che c'è una vita oltre la scuola. Come sempre, e soprattutto se si parla di scuola, è necessario capire cosa ci sia di vero e cercare motivazioni profonde e, magari, soluzioni.

Di vero c'è che maggio è sempre un mese duro perché è decisivo: gli studenti sono impegnati nelle ultime prove in ogni materia e per qualcuno il bilancio sarà critico, deludente, drammatico. Chi ha studiato punta a quello che spera di ottenere, chi non lo ha fatto prova comunque a salvarsi. Tutti stanchi, questo sì, e non è raro che nervi siano a fior di pelle. La scuola non godeva di buona salute prima della pandemia e ora, dopo un anno e più letteralmente attaccata alle macchine, è tramortita e non è in grado di gestire un rush finale verso una chiusura serena di anno scolastico.

Gli studenti in questo anno ne hanno viste di tutti i colori: sono stati lasciati a casa e invitati a collegarsi in modi sempre differenti, hanno svolto lezioni in diretta e in asincrono, hanno consegnato ogni tipo di elaborato su piattaforme sempre diverse, sono tornati a scuola e hanno saputo che le valutazioni in Dad valevano fino a un certo punto, sono tornati a casa e hanno imparato a copiare perché lo fanno tutti. Si sono intristiti, si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni, si sono lasciati andare. Alcuni no, certo, sono quelli che hanno continuato a lavorare bene e ora sono pimpanti.

I docenti, che in questi 30 anni sono sempre stati maggiormente chiamati a svolgere il ruolo del burocrate anziché dell'educatore o, ancora meno, del cultore della materia, ora ragionano come è stato loro indicato quale priorità: raccolgono il numero minimo di valutazioni previsto e richiesto, fissano prove, valutano applicando griglie e compilano registri per evitare difformità formali. Pare un ritratto un po' deprimente, ma la professione docente è in primo luogo scandita da tutti questi passaggi formali, poi c'è il resto. Il resto che è quello per cui molti docenti hanno magari deciso di insegnare, per studiare la materia che si porta in aula, per appassionare trasmettendo la propria passione, per dialogare con gli studenti, compagni di viaggio in ruoli diversi ma nella stessa aula-imbarcazione, per divertirsi e faticare insieme.

Quel che si può fare, alla luce di tutto ciò, è dialogare, non protestare, perché manca un mese e perché tra chi valuta e chi è valutato, rischia di essere una guerra tra poveri. La scuola si fa anche dal basso e, nel breve termine, solamente da lì, anzi da qui. Così, per dialogare è necessario comprendere le fragilità di tutti. I ragazzi possono comprendere i docenti che sono ormai ingranaggi di un sistema che chiede loro di adempiere a compiti di piccolo cabotaggio e fare in modo che non ci siano questioni. I docenti, dal canto loro, possono comprendere che i ragazzi sono studenti convalescenti dopo un anno di attività che non si capisce se non si prova e che non sono in grado di dare tutto come se fosse un maggio di un altro anno, un maggio 2019.

Dialogare significa guardarsi negli occhi, scoprirsi davvero compagni in mezzo a un naufragio, promettersi solidali e, nei propri ruoli, garantire il proprio impegno per l'altro, non solo per sè. Dare e ricevere, esplicitare cosa serve fare nel prossimo mese e cosa invece non è possibile chiedere a chi non ce la fa più, perché non è abituato, perché non ha fatto nulla, perché non è il caso. La scuola non finisce mai a giugno, e nemmeno con gli esami di settembre, figuriamoci in quest'anno sghembo. Se la pandemia dovesse consentire un rientro alla normalità, quantomeno senza interruzioni, il popolo della scuola dovrebbe prevedere un prossimo anno in cui recuperare, leccando le ferite disciplinari e relazionali, a interi gruppi classe. Insieme, con pazienza, da capo, o quasi.

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Marcello Bramati