giorgia meloni
(Ansa)
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La dura lotta di Giorgia Meloni contro il lassismo dell'Europa sui migranti

Nella sua prima trasferta a Bruxelles il premier ha ribadito l'importanza della difesa dei confini e chiesto sul tema un cambio di passo alla Ue che negli ultimi decenni ha fatto sempre troppo poco lasciando l'Italia sola davanti ai flussi migratori

Il presidente del consiglio Giorgia Meloni e il suo ministro degli Esteri Antonio Tajani hanno saggiato, se mai ve ne fosse ancora bisogno, la vischiosità delle istituzioni europee. A Bruxelles, infatti, la visita alla Commissione europea è stata solo un passaggio obbligato e nulla più. Un viaggio a vuoto. O, per dirla con la Commissione stessa «questa istituzione non è responsabile del coordinamento delle azioni di salvataggio in mare». Ecco in sintesi il sentimento di Bruxelles per il tema invece così caro alla nostra compagine governativa.

Anche perché, in termini assoluti, l’Italia attualmente accoglie – e gestisce – ben 5 milioni di migranti, posizionandosi al terzo posto nella classifica dei Paesi con il più alto numero di stranieri presenti nel proprio territorio: dopo Germania (7,5 milioni) e Regno Unito (5,4 milioni), ma prima di Spagna (4,5 milioni) e Francia (4,4 milioni). Insieme, i cinque principali Paesi membri assorbono il 76% dei cittadini stranieri presenti nell'Unione.

Ciò nonostante, le regole dell’accoglienza ancora oggi non sono affatto chiare (per usare un eufemismo) e così pure il meccanismo di redistribuzione delle quote di migranti. Il cui dossier relativo giace polveroso da quasi un decennio sui tavoli degli euroburocrati, senza che abbia mai preso corpo una politica condivisa tra i 27.

Surreale la dichiarazione in merito approvata da Bruxelles lo scorso 10 giugno, quando si è stabilito di dover stabilire l’attuazione di un provvedimento futuro. Sembra uno scherzo da Amici Miei, mentre invece è la dura realtà: «La Dichiarazione politica del 10 giugno – ha dichiarato in proposito l’ex ministro degli Interni Luciana Lamorgese – segna l’inizio di un percorso finalizzato a stabilire un giusto equilibrio tra la responsabilità e la solidarietà nella gestione condivisa dei flussi migratori». Che cosa significa? Niente di niente.

Per risalire all’ultima volta che il tema era emerso in tutta la sua potenza bisogna tornare al biennio 2015/2016: quando la guerra civile siriana e irachena produsse da un lato il Califfato islamico e il terrorismo jihadista, e dall’altro un esodo incontrollato di profughi. Il problema all’epoca fu risolto in maniera manichea da Angela Merkel – la quale aprì le porte della Germania a un milione di siriani – e dal Consiglio europeo, che stanziò oltre 3 miliardi di euro in favore della Turchia, cedendo al ricatto di Ankara per evitare ulteriori arrivi lungo la rotta turco-balcanica.

Nel marzo 2016 gli allora 28 paesi Ue siglarono un patto con le autorità turche che prevedeva per chi arrivava in Grecia di essere rimandato in Turchia, se non ritenuto idoneo a ricevere protezione internazionale. Allo stesso tempo fu introdotto uno schema di scambio 1:1 secondo il quale per ogni siriano rimandato in Turchia, un altro sarebbe stato ricollocato in uno Stato membro. Da allora in avanti, l’Ue ha garantito alla Turchia continui finanziamenti per l’assistenza dei profughi su suolo turco e creato un pericoloso precedente.

La questione del ricollocamento, peraltro, provocò un corto circuito nelle cancellerie europee in relazione soprattutto agli sbarchi lungo le rotte meridionali dell’Europa, segnatamente Italia e Spagna: chi avrebbe dovuto accogliere i profughi? Il Paese di destinazione finale o quello di arrivo? Su questo aspetto, l’Unione si è trovata così disunita da rischiare una spaccatura quasi definitiva (che poi avverrà almeno in parte con il referendum sulla Brexit del giugno 2016).

Il fatto è che dall’Acquis di Schengen del 1985 e dalle sue integrazioni a partire dal 1990 sulla libera circolazione delle frontiere, ben pochi progressi sono stati compiuti. La gestione delle frontiere esterne, ad esempio, fu rimandata al Trattato di Maastricht, che quasi ingenuamente prevedeva che vi fosse «un’area unica senza controlli alle frontiere interne», e cioè appunto lo spazio Schengen, ma che essa richiedesse anche «una politica comune in materia di gestione delle frontiere esterne». Che ovviamente è rimasta lettera morta.

Il motivo? L’idea originaria era che «ogni cittadino ha il diritto di chiedere asilo e non vi sono respingimenti automatici nell’Ue. Le applicazioni sono valutate su base individuale, caso per caso. Un sistema di garanzia che contempla anche il diritto di presentare ricorso». Pertanto, un immane e condiviso problema sociale è diventato un mero discorso burocratico-amministrativo delegato a singoli tribunali locali. Un errore magistrale e un pozzo nero da cui non siamo più in grado di uscire.

Per quanto attiene all’Italia, il problema era e resta sul fronte degli sbarchi via Mar Mediterraneo; in particolare, lungo le rotte che dall’Africa subsahariana convergono verso la Libia, la Tunisia e il Marocco, e da qui in Sicilia e a Gibilterra.

A cercare di gestire internamente la questione e colmare quel vulnus atavico, ci pensò nel 2017 il ministro dell’Interno Marco Minniti, quando il governo Gentiloni varò il decreto che prevedeva, tra le altre cose, la scomparsa dei famigerati i CIE (Centro di identificazione ed espulsione), sostituiti dai Centri di permanenza per il rimpatrio. Anche qui un infingimento burocratico: cambiata la denominazione, infatti, non si è risolto il problema: luoghi la cui capienza doveva essere limitata (100-150 posti al massimo) e dove sarebbero state garantite «condizioni di trattenimento che assicurino l'assoluto rispetto della dignità della persona», sono oggi un girone dantesco.

Per capirlo, basta pensare al maxisbarco di ieri a Crotone: 456 profughi che sono stati tutti trasferiti al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto dove attualmente ci sono oltre 1.500 persone su una capienza massima di 641 posti.

Ma dove il Decreto Minniti intendeva incidere di più era il Codice di condotta per le Ong, ovvero le discusse flotte di navi impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare. Il Codice Minniti vietava, ad esempio, a queste navi di entrare nelle acque territoriali libiche.

Però, la mancata sottoscrizione del codice da parte di numerose ong ha comportato distorsioni del sistema che il suo successore al Viminale, il leghista Matteo Salvini, ha cercato di gestire personalmente, con risultati assai dubbi. E il motivo sta anche nell’aleatorietà dei provvedimenti, che un giudice cavilloso poteva affossare senza troppi problemi (basterebbe citare il caso Carola Rackete), e nel fatto che in essi si prevedeva l’abolizione della «motivazione umanitaria», che ha creato un effetto boomerang portando a un considerevole aumento del numero degli irregolari e dei profughi «fantasma».

Oggi, il governo Meloni torna a promettere proprio il ripristino dei decreti sicurezza di salviniana memoria, in vigore dal 2018 al 2020 poi successivamente modificati. Ma c’è da giurare che ben poco cambierà senza un intervento dell’Unione Europea in sostegno di una politica forte sul tema. Che difficilmente arriverà, come ha lasciato intendere la Commissione.

Nei due anni in cui sono stati operativi, quei decreti hanno prodotto soprattutto critiche e irregolarità diffuse, e non hanno giocato in favore di un modello efficiente da presentare a Bruxelles come possibile soluzione per gli altri Stati membri. Né un paventato blocco navale sarebbe attuabile alle condizioni date, senza il coinvolgimento dell’intera Unione Europea.

Vero è che, nell’analisi degli effetti del decreto sicurezza del biennio 2018/2020, gli sbarchi si sono ridotti insieme alle presenze nel sistema di accoglienza. Questo è il risultato della sommatoria di disposizioni operate dai governi precedenti, compreso il memorandum Italia-Libia del 2017. Che prevedeva, quello sì, un blocco navale da parte delle autorità libiche, dunque a monte del problema. Ma la guerra civile ha spazzato via ogni interlocutore credibile per poter proseguire lungo questa strada.

Dunque, in definitiva, le leggi europee non hanno prodotto mai un barlume di soluzione operativa sulle migrazioni. È una vecchia storia. Quando nel luglio 1938 i Paesi occidentali si riunirono nella Conferenza di Evian per affrontare la questione degli ebrei tedeschi che fuggivano dal regime nazista alla ricerca di un porto sicuro, il numero di profughi ammessi sul suolo dell’Europa e delle Americhe fu tragicamente limitato, con le ben note conseguenze.

L’argomento di Evian fu che «l’emigrazione di un vasto numero di individui di diversa religione, condizione economica, professione è un elemento di disturbo per l’economia di paesi segnati da grave disoccupazione, da problemi non solo di natura economica e sociale, ma anche di ordine pubblico e da difficoltà nella gestione e nella capacità di assorbimento dei profughi. L’emigrazione renderà i problemi razziali e religiosi più acuti, acuirà il disordine internazionale e potrà compromettere i tentativi di pacificazione nelle relazioni fra le nazioni». Ricorda qualcosa?

Nulla è cambiato da allora. Forse, come dice Giorgio Gomel, ex capo studi e relazioni internazionali della Banca d’Italia e presidente di Alliance for Middle East Peace Europe, esiste «un dilemma etico-politico. Il contrasto, cioè, fra un’etica dell'ospitalità e un’etica della sicurezza. La prima risponde all’imperativo umanitario di salvare vite umane in pericolo; la seconda prescrive di affermare e difendere in primo luogo i diritti “verso noi stessi” rispetto a quelli degli altri». Tutto sembra dipendere da quale parte del confine ci si trova.

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Luciano Tirinnanzi